La signora raschia il pavimento. Ogni tanto il telefono squilla, allora si alza lentamente – prima su un ginocchio, poi sull’altro, poi una spinta e via – si avvicina al mobile dell’apparecchio, alza la cornetta. La signora non ha mai parlato, da quando abita qui. Al telefono sorride, si batte una mano sul petto e guarda in alto. Rimane a bocca spalancata, un rivolo di bava le goccia sul colletto della vestaglia. Strappo un pezzo di scottex e la pulisco, poi prendo a mia volta il telefono, – Pronto? – ma il segnale è già andato.
La signora raschia il pavimento dove il gatto ha vomitato. Ha un siamese tronfio e pigro, che ogni giorno biascica chissà quante foglie delle rose in giardino, quelle trattate, che puntualmente rigetta in qualche angolo buio della casa. La signora aspetta che succeda, ogni giorno, perché è tutto ciò che le resta da fare. Allora asciuga il vomito con la carta, passa lo straccio, prende la spazzola rossa e comincia a strofinare. Strofina per ore, finché non si addormenta stremata poggiata al muro.
Io sto nella stanza in fondo. Dalla porta, sempre aperta, vedo il corridoio, il salotto scuro e la polvere che galleggia nei righi di luce che entrano dalla vetrata. Non sento suoni, solo ogni tanto lo strascicare delle ciampelle della signora e il rumore della spazzola sul pavimento. Alla signora invidio i capelli rossi, ancora lucenti.
Qui, oltre a me e lei, non è rimasto più nessuno.