Non sarò mai più felice.
E’ una conclusione a cui sono giunta con non poca fatica, dopo tanto tempo. Ammetto che sia stata piuttosto dura da accettare. Non ho avuto un’infanzia facile, e per un periodo della mia vita – piuttosto lungo, ma breve se comparato a un’esistenza intera – ho potuto capire cosa significhi essere felici, davvero; svegliarsi inondati dalla gioia di affrontare una nuova giornata, tornare a casa, in una casa che si sente propria, dove si e’ protetti, al sicuro. Sprofondare nel letto e l’attimo prima di addormentarsi, pensare alle stelle e al cielo, immaginarsi tutti i pianeti allineati, ma non come lo si intende astronomicamente: pensarli l’uno dietro l’altro formare una figura armoniosa, una di quelle immagini che ti fanno sentire sereno solo a guadarle, come i mandala. E poi sognare torte e cioccolato, perche’ non c’è altro da sognare, e di certo non ci sono incubi di cui avere timore.
Mi chiamo Yuuki e ho quasi ventinove anni. Vivo in un piccolo appartamento di sei tatami vicino a questo lago; mi avrete sicuramente vista passare al mattino quando vado a lavorare, o la sera quando mi alleno, correndo. Mi piace correre anche se non riesco a raggiungere risultati entusiasmanti, e le gare mi intimoriscono. Qualche tempo fa mi sono preparata per una mezza maratona arrivando a correre diciannove chilometri, una distanza impensabile per me fino a poco tempo fa; tuttavia, il giorno della gara, ho deciso di tirarmi indietro, chissà per quale ragione. Io sono fatta così. Ma non è questo di cui volevo parlarvi.
Non ho un gatto, anche se vorrei averlo. A volte dò da mangiare a quello dei vicini, un simpatico brontolone bianco sempre sporco di fuliggine. Gli piace essere accarezzato, seppur solo per il tempo che decide lui. Se lo si accarezza un attimo di più, Pipoca, che significa “popcorn” in portoghese – il padrone ha vissuto in Brasile per vent’anni – si stufa e inizia a borbottare con un miagolio strano, che non avevo mai sentito prima. Io e Pipoca siamo molto simili, anche se io, se fossi un gatto, sarei sicuramente nero.
Ho iniziato a realizzare che non sarei mai più stata felice quando per qualche mattina di fila, svegliandomi, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era il colore grigio. Una distesa informe, nebbiosa, senza sfumature intermedie. Una parete di un palazzo di periferia, perfettamente uniforme e noiosa.
In quelle mattine mi chiedevo: perché sono sveglia?
A dire il vero, ormai capita quasi tutti i giorni.
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Le pareti del mio appartamento sono giallognole e le finestre di legno. Mi piace molto cucinare. Per un periodo avevo smesso, non avendo nessuno per cui farlo, ma poi, col tempo, ho ricominciato. Ho persino comprato un paio di nuovi piccoli elettrodomestici che mi aiutano nelle mie creazioni. Il mio preferito è senza dubbio il frullatore, che ha anche una lama speciale per tagliare le verdure alla julienne in pochi secondi; mi ha praticamente cambiato la vita, lo dico senza esagerare. Adoro la verdura alla julienne, ma detesto grattugiarla a mano. Lo uso anche per tritare le carote per la mia famosa torta; i miei colleghi sono sempre felici quando la porto in ufficio. E’ una torta di carote ricoperta di cioccolato. La ricetta è brasiliana, mi è stata data dal padrone di Pipoca, anche se lui dice che la mia viene sempre un po’ meglio di quella che fa lui.
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Da fuori non si vede niente. Sono una persona allegra, attiva, ho una vita sociale piuttosto vivace quando voglio. Ho molti amici, un buon lavoro, qualche frequentazione fugace – non riesco a legarmi per troppo tempo, forse perché mi apro solo superficialmente, o chissà per quale altra ragione. Ma sono come divisa a metà. C’è un lato piu’ oscuro di me che nessuno, ma proprio nessuno, conosce, e che si fa ogni giorno più forte. Mia sorella deve averlo intuito. Ogni tanto, quando mangiamo insieme, la sorprendo a guardarmi con gli occhi preoccupati, quasi timorosi. Né io né lei, però, vogliamo parlarne. Per ora lasciamo le cose come stanno, perché in fondo a cosa servirebbe. Penso al mio lato buio come a un oceano profondo, abitato da creature contorte, che ho visto talmente tante volte da non farmi neppure più paura. O forse non mi fanno paura perché io sono come loro.
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Non lascio mai i capelli sciolti. Non mi sentirei a posto, e poi fare queste trecce complicate mi rilassa infinitamente. E’ una cosa che ho sempre amato fare. Quando mia madre da bambina mi regalava una bambola la volevo sempre coi capelli lunghissimi per poterli acconciare come più mi piaceva. Sono diventata brava con le trecce alla francese e all’olandese; al mattino mi sveglio sempre venti minuti prima di quando dovrei, solo per sistemare i capelli.
Alcuni di voi sapranno certamente cosa significhi vivere con un grande vuoto dentro: quello che viene quando muore un famigliare, quando si abbandona un’amicizia, quando si perde un compagno. So che sapete di cosa sto parlando. E’ un vuoto sordo, pesante, che non smette mai di pulsare dal momento in cui ci svegliamo al mattino a quando chiudiamo gli occhi prima di dormire, e talvolta prosegue nei sogni. C’è sempre, anche quando ridiamo e ci divertiamo durante una serata fuori con gli amici. E’ come uno spillo piantato dietro il collo, che quando finiamo di sorridere per qualcosa, proprio nell’attimo in cui la nostra bocca torna a una posizione neutrale sul viso e gli occhi smettono di brillare, si spinge un po’ più a fondo e ci dà una piccola scossa come a dire: sono qui, sempre.
Io avevo tutto e per qualche motivo – non ho mai capito bene perché – ho deciso di lasciarmi tutto alle spalle. Il mio vuoto è il risultato di qualcosa che io stessa ho fatto. Non posso dare la colpa a nessuno, o arrabbiarmi contro qualcosa. E’ successo dentro di me e intorno a me, con conseguenze catastrofiche. Da quel momento, ogni giorno ha iniziato a coprirsi di una patina grigia, prima appena percettibile, ora spessa, gelatinosa, impossibile da ignorare. Ho dovuto imparare a conviverci. Imparare la normalità di aprire gli occhi al mattino e non voler essere sveglia, assorbire quel pensiero per dieci minuti, poi alzarmi e proseguire la giornata.
So di essere stata molto fortunata ad aver provato cosa significhi essere felici almeno per un periodo. Mi rendo anche perfettamente conto che avendo rinunciato a tutto volontariamente, la mia infelicità – o meglio, il mio torpore costante, la mia anedonia – è una conseguenza naturale, che ho meritato. Come ho già detto, non sono arrabbiata con nessuno, e non biasimo nessuno.
Tuttavia, devo continuare a vivere.
Ammetto di aver pensato spesso alla morte, ma sono troppo codarda per morire. Le persone sembrano lanciarsi giù dai grattacieli o sotto i treni tutti i giorni; mi chiedo dove trovino il coraggio. Io mi limito a sperare sommessamente che la morte mi cada in testa come un mattone dal terzo piano. Che in un giorno qualunque un pezzo di cornicione si stacchi da un palazzo proprio mentre io cammino lì sotto per andare a comprare il pranzo. Queste storie si sentono spesso, in fin dei conti. Non ci sarebbe niente di male. Non avrei nessuna lamentela da fare, una volta passata all’aldilà. Nessuna situazione rimasta in sospeso da risolvere, nessuna cosa che avrei desiderato ardentemente fare prima di morire. Sparirei senza battere ciglio, forse sentendomi quasi sollevata.
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La cosa più difficile a cui ho dovuto dire addio è la musica. Non tutta la musica, s’intende, ma alcune canzoni – a dire il vero molte – che non potrò mai più ascoltare. La musica ha il potere di legarsi indissolubilmente ai momenti di cui fa parte, e ogni volta sentire determinati pezzi è un grande dolore di cui non ho bisogno.
A volte penso di non essere mai stata capace di vivere come gli altri: sono un essere umano difettoso. Non lo penso con rabbia o rancore, solo come una constatazione oggettiva.
Come guardare questo lago e dire: l’acqua è verde.
Non c’è mai nessuno qui, chissà perché, nonostante le numerose panchine e gli alberi di ciliegio. Una volta ho incontrato un serpente, correndo, ma non credo che la gente non venga qui per quello. Deve essere stato un serpente innocuo, tra l’altro. Sembrava più spaventato di quanto non lo fossi io.
Stamattina, prima di venire qui, ho fatto colazione con pane tostato e marmellata di fragoline di bosco. Ancora prima, mi sono svegliata a fatica, una cosa molto insolita per me che di solito mi sveglio facilmente, dopo un bellissimo sogno. Nel sogno ero in visita al mercato del paese con la mia vecchia classe, avrò avuto sì e no tre anni, e la cosa che ho sognato è successa davvero: durante la visita incotrammo mio nonno paterno passeggiare verso la pineta poco distante, e il solo vederlo mi riempì gli occhi di lacrime di gioia. La maestra fu così sorpresa dalla mia reazione che mi lasciò andare via con lui. Il nonno mi prese in braccio e proseguimmo la nostra mattinata insieme, camminando intorno al lago e altri posti che ci piacevano particolarmente.
Non so quante volte mi sono ripetuta “sarebbe bellissimo tornare a quel momento”. Ormai queste parole suonano consumate, come un disco rotto. Però sarebbe davvero bellissimo. Davvero tanto.
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