Per James io non sono nessuno: un nome e un numero di telefono in una lista di nomi e numeri di telefono. Ha la voce gentile e calma, so che sorride mentre mi spiega che cosa mi faranno, cosa mangiare e cosa bere, quando iniziare il digiuno, come vestirmi, da dove entrare, come trovarlo. I chirurghi qui sono affabili, umani, e chiamano personalmente i loro pazienti prima dell’operazione. Nessuna infermiera o segretaria a fare da intermediario.
La paura inizia a salire non appena chiudiamo la conversazione. Ho sempre avuto un rapporto terribile con gli ospedali, e con mia non poca vergogna mi e’ capitato di svenire gia’ mentre il counsellor mi spiegava cosa ne sarebbe successo delle mie ossa e dei miei legamenti, dove avrebbero tagliato e perche’. Come sempre in questi casi l’udito e’ stata la prima cosa ad andarsene – e’ come se qualcuno mi mettesse due grossi batuffoli di cotone intorno alle orecchie – poi gli occhi hanno iniziato a riempirsi di palline nere e poi piu’ niente. Per fortuna ho potuto giustificarmi dando la colpa al caldo insolito di questi giorni. Non so proprio spiegare cosa sia a terrorizzarmi tanto.
James ha detto che l’intervento si svolgera’ in anestesia totale. La settimana che precede il giorno stabilito non faccio che sognare demoni, diavoli e fantasmi. La sera prima decido di andare a ballare swing per non pensare troppo.
Il giovedi’, alle cinque del mattino sono gia’ sveglia. Ho talmente paura che non mi pesa nemmeno non fare colazione. In ospedale il mio nome viene chiamato dopo un po’ di attesa, nella solita maniera sbagliata in cui viene pronunciato qui da tutti. Un’infermiera asiatica, piu’ bassa di me di almeno venti centimetri, mi accompagna allo spogliatoio e mi spiega come infilarmi i due camici per la sala operatoria. Mi guardo allo specchio. Sembro un salame fantasma. Mi portano in una nuova sala di attesa con altri salami fantasma di varie eta’, intenti a leggere articoli di gossip nei giornali spazzatura provvisti dall’ospedale. Io sono pietrificata e non riesco a fare niente. Fingo di guardare la TV. Dopo non molto iniziano i vari colloqui: prima con uno dei chirurghi, Agatha, forse venticinque anni, est europea, occhi grandi e lenti a contatto; poi con l’anestesista, Jane, magrissima, inglese, dice che non c’e’ niente di cui avere paura; poi il dottor T., il mio counsellor che incuriosito dal caso vuole assistere all’operazione, mi chiama “la giocatrice di rugby” perche’ e’ giocando a rugby che tutto questo e’ iniziato; infine un’altra infermiera, probabilmente al suo secondo giorno di lavoro, inglese, mora, mi misura la pressione, mi fa mille domande, mi pesa – dall’ultima volta in cui mi sono pesata due mesi fa ho perso cinque chili – mi fa fare un test di gravidanza perche’ “e’ la prassi”. Dopo tanto parlare mi sento improvvisamente rilassata, tranquilla. Quando l’anestesista mi chiama sono pacata e sorridente. Non fa in tempo a mettemi la flebo e spiegarmi che il liquido sara’ un po’ freddo che chissa’ per quale ragione scoppio a ridere, poi il buio.
Mi sveglio e ho gia’ le lacrime agli occhi. Sento una voce lontana che mi chiede perche’ io stia piangendo. A fatica, lentamente, riesco a rantolare un “fa male”. Sento un gran dolore alla mano sinistra, che con sorpresa scopro essere avvolta in una specie di gesso fino a meta’ avambraccio. La voce lontana di prima inizia ad assumere le sembianze di un’infermiera cicciottella con gli occhiali, mi inietta una dose di morfina dalla canula e dopo qualche minuto mi chiede di quantificare il dolore da uno a dieci. Sei. Inietta altra morfina. Mi chiede di quantificare il dolore da uno a dieci. Sei, piango ancora. Inietta altra morfina. Ci sono degli unicorni e mi sembra di scorgere una collina in lontananza, ma l’unica faccia che vorrei davvero vedere non c’e’. Un telefono squilla fortissimo. Mi riaddormento.
La seconda volta mi sveglia il dottor T. per dirmi che e’ andato tutto bene, e che spera che abbia imparato la lezione, non si gioca a rugby coi ragazzi. Gli dico che d’ora in avanti andro’ solo a lezione di swing, ma ci crediamo poco entrambi. Mi sposto a fatica nella sala dove si viene dimessi. Un’infermiera vecchia e un po’ rimbambita mi accoglie con un gran sorriso, mentre canticchia una canzone a bocca chiusa; sempre cantando, mi para di fronte un pacchetto di biscotti, un sandwich con il tonno e un te’ con talmente tanto latte da risultare completamente bianco. “Ora mangia”, mi dice, dovra’ darmi altri antidolorifici. A fatica ingurgito i biscotti, poi ho dei conati di vomito, devo sdraiarmi di nuovo. Vado e vengo da uno strano mondo dei sogni dove i rumori reali si fondono ai miei pensieri. Qualcuno mi ha detto, recentemente, che ho una visione dell’amore completamente contorta, sbagliata, che mi comporto come un’adolescente e non dovrei piangere per le sciocchezze. Io penso solo che il mio cuore si sia ridotto a un sasso.
Torno da questa parte e mi stanno imboccando il sandwich al tonno. E’ proprio buono. Poi mi avvertono che e’ ora di andare a casa.
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