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Archive for the ‘musica’ Category

Mi sono arrovellata per mesi cercando di capire cosa mi sia preso qualche tempo fa, quando ho deciso di stravolgere tutto e andare incontro al buio. Non sarei capace di contare le notti e le mattine in cui mi sono svegliata solo con la voglia di sbattere la testa contro il muro. Quante volte ho guardato indietro analizzando giorno per giorno le parole che avevo detto, le sensazioni, il senso di disorientamento, l’incapacità  di riconoscere anche solo per un attimo la persona che ero, urlandole contro e chiedendo dal futuro: perché.

Invidio le persone che comprendono se stesse a fondo. Sono facili da riconoscere – almeno per me – calme e posate, hanno gli occhi fermi e tranquilli. Io non sono così. Ho sempre avuto, fin da bambina, un tumulto dentro: quello che mi portava a strappare senza alcun motivo le piante della vicina, ad andarmene da casa di nascosto, quello che ha portato a galla i sassolini scuri nei miei occhi verdi. Qualcosa che si muove senza che io possa controllarlo, che mi spinge avanti, mi fa annoiare dei posti dopo tempi più o meno brevi. Non posso tenere questa cosa a bada. Quando provo a farlo, mi esplode contro con effetti disastrosi che non riesco a controllare. Non basta neanche l’amore a calmarlo.

*

Sono stata già molte altre volte in questa stazione. Qui ho aspettato, ho corso, ho incontrato amici e amori, ho mangiato, mi sono seduta e ho pianto. Quando capito in luoghi come questo mi sento in pace. La gente va di fretta, non ha nessun motivo di essere qui, sta solo andando da una destinazione all’altra; alcuni si salutano, altri si ritrovano, altri ancora camminano soli con l’ombrello sotto braccio, senza lasciarsi infastidire troppo dalla pioggia che scroscia poco fuori l’entrata. Qui, io e il mio tumulto siamo in pace: ci muoviamo con tutto quello che si muove intorno a noi.

Mi sono arrovellata per mesi cercando di capire cosa mi sia preso qualche tempo fa. Ora lo so. Ed è molto più semplice di quanto immaginassi.

Non avrei mai potuto chiamare un posto, qualsiasi esso fosse, “casa”. Avevo ancora bisogno di treni, di sconosciuti, di partenze, strade bagnate e scure, caffè bollenti in bicchieri da asporto. Avevo bisogno di andare. Il mio tumulto è un fuoco che macina quantità industriali di combustibile. Non sarei mai stata capace di fermarmi, per nessun motivo. Credevo che l’amore sarebbe bastato – e ne avevo a sacchi. Non è servito. Mi si è rivoltato tutto contro, con una violenza tale che non potevo più riconoscere nemmeno il palmo delle mie mani.

Raramente quello che ho dentro si calma e mi lascia in pace. Una delle poche, pochissime occasioni in cui si addormenta, è quando riconosco qualcuno come me, con lo stesso fuoco dentro e lo sguardo rivolto verso l’alto, alle stelle e allo spazio, perché piano piano è lì che vorrà arrivare, poco importa tra quanto. Mi è successo solo una volta. È bastato incrociare il suo sguardo, un secondo, dall’altro lato della stanza.

Mi riesce difficile credere di poter stare bene. Quando non ho pensieri e me ne accorgo, comincio a guardarmi intorno con fare sospetto, alla ricerca di qualcosa di sbagliato. È vero che sta succedendo a me? E quello che sento, lo sento veramente? Queste domande mi hanno spaventata molte, moltissime volte in passato; ora non hanno alcun potere. All’inizio anche questo mi faceva molta paura, poi ho capito. Lui ha il mio stesso fuoco. Nel calore del suo corpo, a notte fonda, il tumulto che ho dentro si lascia cullare piano, come un bravo neonato. È disarmante, e bello, rendersi conto di quanto alla fine sia semplice.

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Non so perché non abbia nuotato per tutti questi anni: se i miei muscoli lo permettessero, potrei andare avanti e indietro nella piscina per ore. Purtroppo non sono ancora molto forte, e non ho molto tempo a disposizione. Provo comunque a fare del mio meglio.

Quello che preferisco è mettere la testa sott’acqua, dove i rumori si attutiscono e persino le voci nella mia testa si fanno più soffici, meno severe. Non riesco a sentirle bene quando dicono che non posso essere felice; diventano solo tante piccole particelle, solitarie e innocue.

In questi ultimi due anni ho provato spesso a ricordarmi come si stesse quando si sta bene. Non riuscivo a credere che nella mia vita ci fossero stati giorni in cui al mattino mi svegliavo felice, senza sentire un macigno sul petto, o senza dovermi trascinare in cucina come una massa informe e grigia, costretta ad affrontare la giornata perché non c’era altro da fare. A volte guardo indietro e mi complimento con me stessa per essermi spinta fuori casa anche nei giorni più bui, per aver convinto le mie gambe a correre cinque, dieci, venti chilometri. Non so come abbia fatto. Forse ero solo sicura che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato. Nonostante la malinconia perenne che mi contraddistingue sono un’inguaribile ottimista; per quanto questo possa suonare patetico, non trovo altro modo per descriverlo. Forse ho solo letto troppe favole da bambina. Ogni momento brutto mi sembra una prova da dover superare per poter arrivare a qualcosa di bello. Non so se questo sia l’atteggiamento giusto, ma è una cosa che mi ha sempre aiutata.

Arrivare ai suoi occhi ha richiesto molto tempo e molte strade tortuose. Foreste buie, mostri, avvoltoi, piante velenose, paludi e torrenti in piena. Lo rifarei mille volte. Mi sento come una principessa guerriera che dopo mille disavventure ha finalmente trovato la chiave per il grande portone del palazzo.

Non sono mai stata capace di scrivere quando sono felice. Chiedetemi di parlare di tristezza, di raccontare storie angosciose, e potrei scrivere per ore. Quando sono felice riesco solo ad elencare le piccole cose belle dei miei giorni. Il profumo del suo caffè al mattino. Sentire il suo corpo accanto al mio, nelle prime ore dell’alba. Il cuore che fa un piccolo salto allegro l’attimo prima di vederlo. L’odore dei suoi capelli. Sentirlo ridere. Quando siamo innamorati siamo tutti un po’ smielati allo stesso modo.

Una delle sensazioni più belle è stata slegare canzoni, luoghi e libri dai vecchi ricordi; pulire le tele e ritrovare nuovi spazi bianchi da riempire.

È una cosa che mi fa sentire tanto leggera.

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La signora al controllo passaporti apre il mio, con sguardo annoiato. L’avevo gia’ notata qualche momento fa dalla fila; mi era sembrata una di quelle persone sempre arrabbiate, con la bocca piegata in giu’. Chissa’ quanta gente vede ogni giorno, ho pensato. Forse anche io avrei l’espressione scocciata, dopo il duemilatredicesimo turista che mi sfila di fronte diretto chissa’ dove – o meglio, diretto ad Amsterdam, Parigi, Lille, Londra o Marsiglia, perche’ da qui sono solo queste le destinazioni. La vedo sorridere, anzi, direi proprio ridacchiare, sotto i baffi. Studia la mia foto nel passaporto, mi lancia uno sguardo divertito, poi si toglie gli occhiali. Io ho gli occhi gonfi di pianto, e il suo sorriso e’ la prima cosa che mi fa sentire bene da almeno due giorni. “Quando hai cambiato colore di capelli?” chiede, in francese. “Due anni fa. Anzi, direi tre”. “Vorresti cambiarlo di nuovo?” “No”, le dico, mentendo, perche’ e’ gia’ da qualche tempo che ho iniziato a pensare a tingermi la testa nero corvino, senza nessun riflesso. Solo nero. La signora continua a guardare la mia foto, gongolandosi sulla sedia girevole. “Stai molto bene con i capelli rossi. Non cambiarli”.

Mi siedo in un angolo della sala d’attesa. Sono arrabbiata e triste, cosi’ tanto da aver dimenticato di prendere la crema spalmabile di speculoos – una delle cose che preferisco al mondo. Come sempre, essere in una stazione mi fa sentire piu’ tranquilla. Nelle stazioni e negli aeroporti non devo essere niente, non devo fare niente se non aspettare il mezzo che mi portera’ via, la vita fuori quasi scompare. Scompaiono i negozi chiusi, le famiglie che tornano a casa dopo la giornata festiva, le nuvole, i panifici e i caffe’. Metto le cuffie alle orecchie e mi faccio piccina piccio’ nel sedile del treno, con la testa poggiata al finestrino.

Una volta tanto, sono felice di tornare a casa.

 

 

 

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Hey hey
I don’t see the light I saw in you before
And know I don’t care anymore

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Ci svegliamo all’alba ma fuori e’ ancora completamente buio: come se non fossimo mai andati a dormire. La notte e’ stata breve e movimentata. Dalla finestra aperta entrano i primi rumori del mattino, scanditi dallo strisciare regolare degli pneumatici sull’asfalto bagnato. I contorni dei camini sui tetti si confondono con le nuvole scure e la nebbia.

Siamo stanchi e parliamo a malapena. Ci vestiamo in fretta e usciamo nella strada principale, illuminata ogni pochi metri dalle luci degli off licence aperti ventiquattr’ore. “Scusa se non sono di molte parole”, dice, poi mi saluta con un “ci sentiamo” seguito dal mio nome, per intero, come e’ solito fare. Non riesco a fingere un sorriso. Mi infilo cappuccio e cuffie e trotterello verso la fermata della metropolitana.

A quest’ora i treni non hanno ancora iniziato a viaggiare regolarmente. Con tutta probabilita’ quello che sto prendendo e’ il primo della giornata. La stazione e’ piccola e scura, di quelle che ti fanno sentire come se stessi attraversando le budella di una qualche creatura gigantesca. Nel vagone le facce tristi dall’est della citta’, sveglie da chissa’ quando, si nascondono dietro i giornali o si riposano poggiate ai finestrini. In mattine come questa sembra che il giorno non debba arrivare mai.

I’ve broken my radar
There’s no going back now
I lost what I long for
Let me go to my hideaway

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Once I said
Keep me out of your head
To wait it out
A thousand years
Didn’t work

Still
You would house my world
Within yours

Scattered mind
Let me out
Wave goodbye

Still
You would house my world
Within yours

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Vivo accanto alla rimessa degli scuolabus. Per il posto – un minuscolo prefabbricato, tutto sommato messo bene – non devo pagare niente, me lo danno in cambio della pulizia dei mezzi. Comincio a lavorare il tardo pomeriggio, quando tutti i pulmini  gialli sono rientrati dalla corsa di fine lezioni. Spazzo i pavimenti, aspiro i sedili, passo lo straccio. Cerco di eliminare quanto possibile del casino dei bambini che ci hanno viaggiato. Capita di trovare giacchetti, radioline, ombrelli, zaini, ma anche torsi di mela, carte di caramelle, pupazzi, giochini. Le cose di valore devo metterle in una stanza apposita, dove i genitori ogni tanto vengono a cercarle. Tutto qui. Il lavoro è semplice, a pulire tutto ci metto al massimo quattro ore, l’alloggio è carino anche se un po’ fuoricittà. A cento metri da casa passa il treno, giorno e notte, ma non è un gran fastidio, tutt’altro; capita che vada a sedermi vicino ai binari ad aspettarlo. Il sabato vengono a vederlo anche padri e figli dei palazzi qui accanto. E’ una specie di attrazione.

Ho un uomo. Non è mio marito, ma stiamo insieme da qualche tempo. Lo vedo raramente e non so che cosa faccia, quando non è qui; non ama raccontare di sé, ma so di certo  che ha altre donne. Parla con loro al telefono al mattino presto o la sera tardi quando crede che io stia dormendo, e scrive loro lunghe lettere senza preoccuparsi di nasconderle troppo bene. Giusto qualche ora fa gliene ho trovata una, tutta spiegazzata dentro un calzino, perciò me ne sono venuta via lasciandolo a letto, solo. Non credo se ne sorprenderà.

In generale non mi concedo molto; quasi niente, direi. Solo ogni tanto, in mattine come questa mi avventuro verso il centro della città. Dopo aver camminato un po’ decido di entrare in un bar a caso, il primo che vedo, per mangiare qualcosa. Il locale è scuro, arredato con poco gusto in stile latino; ci sono figurette di antiche divinità azteche, sombreri appesi alle pareti, vecchie pubblicità scolorite di noti rum. A me il rum fa schifo, lo detesto. E in generale nemmeno l’america latina mi piace; per non parlare della musica di quei posti. Però in questo momento può andar bene. Mi avvicino al bancone, la barista grassoccia con gli occhi allungati e l’aria gentile mi porge un menu sorridendo. Ordino crêpes al formaggio e un bicchierone di rum, uno qualsiasi. Mi siedo al tavolo e aspetto. Siamo in una via turistica, fuori passa un sacco di gente; si fermano a guardare la composizione di frutta in vetrina. Io la noto ora per la prima volta.  Mi rendo conto che in effetti neanche la musica mi dà più fastidio; c’è una canzone famosa, che da qualche parte dice “la vita è un carnevale”. Se fosse stato un giorno qualsiasi l’avrei detestata, davvero.

La cameriera arriva pochi minuti dopo. Ha in mano un piatto con una graziosa composizione, la crêpe al centro ricoperta di riccioli di formaggio, e intorno due laghetti di salsa al pomodoro e alla cipolla. Una vera delizia. Mastico piano e mi sembra la cosa più buona del mondo. Dovrei tornare a casa, perché è tardi e l’ultimo autobus passerà a momenti, ma la prendo con calma. Chissà se avranno chiamato qualcuno a pulire i pulmini al posto mio, nel pomeriggio. Io stessa non mi sono curata di giustificare la mia assenza. Ma anche se nessuno li pulisse, ai bambini importerebbe poco.
Ho ancora mezzo rum nel bicchiere, per quanto possa sforzarmi è davvero disgustoso. Senza che nessuno mi veda, lo rovescio sul tavolo di legno rotondo. Per un po’ guardo il liquido che si spande a cerchio e piano piano prende a gocciolare dai margini verso il pavimento. Poi pulisco con la manica della felpa il macello che ho fatto.

Alla fermata capisco che l’ultima corsa c’è già stata da un pezzo, ma non me ne preoccupo. Mi siedo sul ciglio della strada. Passa qualche bicicletta cigolante, poi più niente. Ho i capelli arruffati e puzzo d’alcool, non so perché ma questo mi fa sentire al sicuro. Così, mi addormento.

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E’ una casa sul mare: non ho voluto dirti altro. La vecchia casa di un vecchio amico. Mi siedi di fianco nell’auto azzurra, con le valigie sulle ginocchia; non hai avuto la pazienza di sistemarle nel bagagliaio quando sono passato a prenderti. Hai dei grandi occhiali da sole con una grossa montatura in plastica rossa, scorgo la punta del tuo naso e la bocca leggermente aperta, respiri regolarmente. Stai dormendo.

Arriviamo che si è appena fatta mattina. La casa è isolata, su una piccola altura; dall’altra parte la spiaggia e il mare. Scendi quasi di corsa e guardi in alto. Dici quello che vediamo: è una vecchia costruzione, in legno dipinto di bianco, oramai scrostato dagli anni e dalla salsedine. L’aria profuma. Ho sempre odiato l’estate, ma quello che abbiamo ora mi fa cambiare idea. Mi prendi le chiavi dalla tasca e ti precipiti all’interno; sento i tuoi passi sul pavimento cigolante, avrei voglia di entrare ma decido di rimanere fermo dove sono. Trovi alcune cose che ti fanno contenta, e lo sento da qui. Poi sali le scale, vengo anche io.

Siamo in una soffitta umida, entra qualche spiffero da un vetro rotto. Tieni in mano una bottiglia polverosa, che protegge un minuscolo veliero. Lo guardi meravigliata; è perfetto in ogni dettaglio. Ma come ce lo avranno infilato, lì dentro – dici, e non so risponderti. Mi alzo per dare un’occhiata al cortile: l’erba è quasi alta quanto la porta secondaria.

Ho esitato a lungo prima di chiamarti, non sapevo se questa ti sarebbe sembrata una buona idea. Ma l’hai accolta con entusiasmo. Mi sono procurato il necessario per poter rimanere tutto il tempo che volevamo. Potremmo essere in molti altri luoghi, in effetti, ma siamo qui.

Sei uscita fuori e hai attraversato il cancello verso la spiaggia, seguo il tuo percorso dalla finestra della soffitta. Il cielo è illuminato quasi completamente oramai. Il mare si muove appena, sfiorato da un vento impercettibile. Ti guardo fare piccoli passi sulla sabbia, con le scarpe ancora addosso. Risplendi d’oro nell’aria dell’estate.

Ad A.

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Ho trovato delle ottime arance all’unico, minuscolo,  supermercato del quartiere. Hanno una bella buccia spessa e porosa, pochi fili bianchi all’interno, e gli spicchi ben separati l’un l’altro. Aprire un’arancia e dover faticare a staccarne gli spicchi è una cosa che ho sempre odiato; si perde una gran quantità di sugo e l’odore del frutto, per quanto buono, stagna tanto a lungo nella stanza da nausearmi. Così stamani a colazione ho mangiato tre di questi buonissimi agrumi, ho attraversato la strada e sono entrata nel parco. C’è una panchina arrugginita nella quale mi siedo sempre, di fronte a un piccolo lago che è più una pozza.  Nei giorni feriali, prima di pranzo, di qui non passa certo nessuno ed è questo che mi piace. Non c’è da chiedere, da aspettare risposte, da parlare o ringraziare.

Minuscoli insetti saltellano tra le foglie cadute oramai fradice che ricoprono l’acqua.

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