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Archive for the ‘rabbia’ Category

La signora al controllo passaporti apre il mio, con sguardo annoiato. L’avevo gia’ notata qualche momento fa dalla fila; mi era sembrata una di quelle persone sempre arrabbiate, con la bocca piegata in giu’. Chissa’ quanta gente vede ogni giorno, ho pensato. Forse anche io avrei l’espressione scocciata, dopo il duemilatredicesimo turista che mi sfila di fronte diretto chissa’ dove – o meglio, diretto ad Amsterdam, Parigi, Lille, Londra o Marsiglia, perche’ da qui sono solo queste le destinazioni. La vedo sorridere, anzi, direi proprio ridacchiare, sotto i baffi. Studia la mia foto nel passaporto, mi lancia uno sguardo divertito, poi si toglie gli occhiali. Io ho gli occhi gonfi di pianto, e il suo sorriso e’ la prima cosa che mi fa sentire bene da almeno due giorni. “Quando hai cambiato colore di capelli?” chiede, in francese. “Due anni fa. Anzi, direi tre”. “Vorresti cambiarlo di nuovo?” “No”, le dico, mentendo, perche’ e’ gia’ da qualche tempo che ho iniziato a pensare a tingermi la testa nero corvino, senza nessun riflesso. Solo nero. La signora continua a guardare la mia foto, gongolandosi sulla sedia girevole. “Stai molto bene con i capelli rossi. Non cambiarli”.

Mi siedo in un angolo della sala d’attesa. Sono arrabbiata e triste, cosi’ tanto da aver dimenticato di prendere la crema spalmabile di speculoos – una delle cose che preferisco al mondo. Come sempre, essere in una stazione mi fa sentire piu’ tranquilla. Nelle stazioni e negli aeroporti non devo essere niente, non devo fare niente se non aspettare il mezzo che mi portera’ via, la vita fuori quasi scompare. Scompaiono i negozi chiusi, le famiglie che tornano a casa dopo la giornata festiva, le nuvole, i panifici e i caffe’. Metto le cuffie alle orecchie e mi faccio piccina piccio’ nel sedile del treno, con la testa poggiata al finestrino.

Una volta tanto, sono felice di tornare a casa.

 

 

 

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Dalla posizione in cui mi trovo vedo un triangolo di cielo ancora azzurro, disegnato dai rami intrecciati degli alberi che in questo punto del parco vengono lasciati crescere come vogliono, senza costrizioni o potature particolari. Lo fanno per gli uccelli, come recita un cartello all’inizio del sentiero che si inoltra in quest’area. In effetti, una volta mentre correvo ho incontrato un piccolissimo pettirosso che si riposava sotto alcune felci proprio da queste parti.

Lo stivale fangoso di lui è ancora poggiato sul mio orecchio sinistro e mi tiene premuta la testa a terra. Un piccolo torrente di sangue scorre silenzioso verso la mia bocca, rigandomi la guancia. Lecco via a intervalli regolari quello che mi si ferma sulle labbra; chissà perché il sapore ferroso mi fa venire in mente l’estate dai miei, i lamponi che coglievo nell’orto del nonno – non so se sia per via del sangue o dell’odore di bosco che qui è così forte. So di avere un fil di ferro conficcato in una caviglia, ma laggiù ormai si è informicolito tutto e non riesco a muovermi per poter guardare. Spero solo non sia troppo disgustoso. Lui si fruga nelle tasche da un po’ ormai; ad ogni movimento più brusco qualche pezzetto di terra si stacca dalla suola della sua scarpa e si ferma docile sul mio viso. Nella caduta ho perso uno degli auricolari, mentre l’altro suona ancora, appiccicato al fango sotto la mia testa. Mozart, Concerto per pianoforte n. 21 in do maggiore, K467. Il mio compagno non smette mai di dirmi quanto non capisca i miei gusti riguardo la musica da usare durante una corsa; io trovo la musica classica perfetta, adatta ai cambiamenti di respiro e di strada, alla pioggia che cade improvvisa e a sfollare i pensieri che ogni volta mi riempiono la testa. Di solito parto con Mozart o Wagner, per poi chiudere coi notturni di Chopin quando decido di correre molto a lungo. Oggi, non so perché, non ho fatto che ascoltare questo preciso Concerto a rotazione.

Dopo circa dieci minuti di silenzio finalmente si decide a rivolgermi la parola, in modo brusco. Ha estratto dalla tasca un piccolo coltello affilato, l’oggetto che ha cercato con affanno tutto questo tempo. Piegato verso di me mi chiede rabbioso di dargli il portafogli. Rispondo che non ho niente, non ho mai niente con me mentre corro se non le chiavi e il telefono, che se vuole può avere quello, anche se mi dispiacerebbe tornare a casa senza musica alle orecchie. Mi interrompe prima che possa spiegargli tutto e con fare maldestro inizia a toccarmi ovunque. Mi alza la maglia, mi sposta le braccia, respira forte. Scende verso i pantaloni, mi strizza i fianchi e mi tocca le gambe. Mentre procede nel suo perlustramento burrascoso ricomincio a sentire la caviglia – il suo peso su di me deve aver fatto penetrare il fil di ferro in profondità. Il dolore mi fa uscire una lacrima dall’occhio sinistro ma non dico niente. Lui comincia a mugugnare da solo, sempre più arrabbiato di non aver ricavato niente dalla sua imboscata. Si accorge che ho ancora il cellulare in mano e me lo strappa via con forza. Ora la musica non si sente più. Si piega a terra, la faccia a contatto con la mia. Dice che sono fortunata perché non gli viene duro. Il sudore gli cola dai capelli sulla mia fronte. Puzza così tanto che per qualche momento trattengo il respiro. Mentre si ricompone per andare via mi fissa e mi chiede a cosa stia pensando. “Alla colazione”, dico. Sto veramente pensando a una colazione abbondante, di quelle che piacciono a me, con uova strapazzate, salmone e avocado. La mia risposta non deve piacergli perché prima di dileguarsi definitivamente mi dà un calcio in testa, forte. Perdo conoscenza.

Mi sveglio quando il triangolo di cielo è ormai completamente nero. Ogni volta che passa un’auto sulla strada vicino, il boschetto si illumina a giorno. Mi tiro su a fatica. Ho del sangue incrostato su un lato della faccia, e la caviglia viene via con un rumore poco piacevole dal fil di ferro, lasciando intravedere una brutta ferita. Nonostante non mi regga molto bene in piedi, faccio del mio meglio per staccare il fil di ferro teso tra i due alberi, in modo che domani mattina non si faccia del male nessuno. Mi avvio verso l’uscita del parco zoppicante, senza nemmeno trovare la forza per piangere. Non mi sento triste: ho solo disperatamente bisogno di una coperta che mi protegga dal freddo.

Il mio compagno mi accoglie come un cagnolino abbandonato, con gli occhi pieni di preoccupazione. Mi abbraccia forte e quasi in lacrime mi chiede cosa sia successo. Non ho voglia di parlare. Dice che stava per chiamare la polizia. Gli dico che mi hanno rubato il cellulare con tutta la musica dentro. A quel punto inizio a piangere a dirotto. Dice che non importa, me ne prenderà uno nuovo e metterà dentro tutta la musica che voglio, e che non dirà mai più niente sui miei strani gusti in quanto a musica per correre. Mi stringe ancora e insiste per andare in ospedale. Mi sento come una camicia smessa, non ho forza di replicare – accetto tutto quello che mi dice. Nel viaggio in auto che ci separa dall’ospedale più vicino le lacrime mi scendono a fiumi sulle guance. Il dolore alla caviglia, gonfia e pulsante, fa andare i miei pensieri in direzioni strane, quasi incontrollabili. Penso che vorrei essere a casa dei miei, sentire il profumo della primavera in montagna, andare al supermercato del paese, comprare gli ingredienti e fare una bella crostata di frutta. Penso che avrei voluto chiedere almeno il nome al tizio che mi ha aggredito. Penso a come spariscano facilmente le persone dalla mia vita. Non una o due, interi gruppi, intere famiglie di persone che ho creduto essere famiglia anche per me. Il mio compagno ha parcheggiato da non so quanto tempo, è sceso dall’auto, si è accucciato vicino a me e mi accarezza. Dice che adesso dobbiamo andare, che devono sistemarmi la gamba, che devo smettere di piangere – dopotutto manca pochissimo al nostro viaggio a Parigi, e mi porterà a mangiare i dolci più buoni che rammento sempre, tutti quelli che disegno sul blocchetto accanto al telefono mentre passo le ore a parlare con la mia migliore amica. Come sempre quando è molto agitato, parla con un forte accento francese. Mi fa sorridere.

Da dove sono seduta adesso vedo uno spiazzo dove riposa il rottame di una vecchia automobile, spogliato di tutto quello che aveva dentro, senza ruote. Un piccolo gruppo di asfodeli gialli, cresciuti per caso, ne decora i contorni. Il mio compagno mi dà un bacio sulla fronte e mi chiede a cosa stia pensando. “Alla colazione”, dico. “Avrei dovuto immaginarlo”, dice. Sorride e mi aiuta ad alzarmi. Il sentiero che collega il parcheggio all’ospedale è ricoperto di lumache e dobbiamo fare attenzione a non calpestarle. Si vedono arrivare ambulanze di continuo, una dopo l’altra, circondate da tante piccole figure indaffarate, in giacche arancioni e camici bianchi.

Mi chiedo quante persone moriranno, qui, stanotte.

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Where do we go from here?
The words are coming out all weird
Where are you now, when I need you
Alone on an aeroplane
Fall asleep on against the window pane
My blood will thicken

I need to wash myself again to hide all the dirt and pain
‘Cause I’d be scared that there’s nothing underneath
But who are my real friends?
Have they all got the bends?
Am I really sinking this low?

[No matter what they say. I know who I am and who I’m not. I know what I feel, what I do and why I decide to go left or right. People can say anything.]

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Vivo accanto alla rimessa degli scuolabus. Per il posto – un minuscolo prefabbricato, tutto sommato messo bene – non devo pagare niente, me lo danno in cambio della pulizia dei mezzi. Comincio a lavorare il tardo pomeriggio, quando tutti i pulmini  gialli sono rientrati dalla corsa di fine lezioni. Spazzo i pavimenti, aspiro i sedili, passo lo straccio. Cerco di eliminare quanto possibile del casino dei bambini che ci hanno viaggiato. Capita di trovare giacchetti, radioline, ombrelli, zaini, ma anche torsi di mela, carte di caramelle, pupazzi, giochini. Le cose di valore devo metterle in una stanza apposita, dove i genitori ogni tanto vengono a cercarle. Tutto qui. Il lavoro è semplice, a pulire tutto ci metto al massimo quattro ore, l’alloggio è carino anche se un po’ fuoricittà. A cento metri da casa passa il treno, giorno e notte, ma non è un gran fastidio, tutt’altro; capita che vada a sedermi vicino ai binari ad aspettarlo. Il sabato vengono a vederlo anche padri e figli dei palazzi qui accanto. E’ una specie di attrazione.

Ho un uomo. Non è mio marito, ma stiamo insieme da qualche tempo. Lo vedo raramente e non so che cosa faccia, quando non è qui; non ama raccontare di sé, ma so di certo  che ha altre donne. Parla con loro al telefono al mattino presto o la sera tardi quando crede che io stia dormendo, e scrive loro lunghe lettere senza preoccuparsi di nasconderle troppo bene. Giusto qualche ora fa gliene ho trovata una, tutta spiegazzata dentro un calzino, perciò me ne sono venuta via lasciandolo a letto, solo. Non credo se ne sorprenderà.

In generale non mi concedo molto; quasi niente, direi. Solo ogni tanto, in mattine come questa mi avventuro verso il centro della città. Dopo aver camminato un po’ decido di entrare in un bar a caso, il primo che vedo, per mangiare qualcosa. Il locale è scuro, arredato con poco gusto in stile latino; ci sono figurette di antiche divinità azteche, sombreri appesi alle pareti, vecchie pubblicità scolorite di noti rum. A me il rum fa schifo, lo detesto. E in generale nemmeno l’america latina mi piace; per non parlare della musica di quei posti. Però in questo momento può andar bene. Mi avvicino al bancone, la barista grassoccia con gli occhi allungati e l’aria gentile mi porge un menu sorridendo. Ordino crêpes al formaggio e un bicchierone di rum, uno qualsiasi. Mi siedo al tavolo e aspetto. Siamo in una via turistica, fuori passa un sacco di gente; si fermano a guardare la composizione di frutta in vetrina. Io la noto ora per la prima volta.  Mi rendo conto che in effetti neanche la musica mi dà più fastidio; c’è una canzone famosa, che da qualche parte dice “la vita è un carnevale”. Se fosse stato un giorno qualsiasi l’avrei detestata, davvero.

La cameriera arriva pochi minuti dopo. Ha in mano un piatto con una graziosa composizione, la crêpe al centro ricoperta di riccioli di formaggio, e intorno due laghetti di salsa al pomodoro e alla cipolla. Una vera delizia. Mastico piano e mi sembra la cosa più buona del mondo. Dovrei tornare a casa, perché è tardi e l’ultimo autobus passerà a momenti, ma la prendo con calma. Chissà se avranno chiamato qualcuno a pulire i pulmini al posto mio, nel pomeriggio. Io stessa non mi sono curata di giustificare la mia assenza. Ma anche se nessuno li pulisse, ai bambini importerebbe poco.
Ho ancora mezzo rum nel bicchiere, per quanto possa sforzarmi è davvero disgustoso. Senza che nessuno mi veda, lo rovescio sul tavolo di legno rotondo. Per un po’ guardo il liquido che si spande a cerchio e piano piano prende a gocciolare dai margini verso il pavimento. Poi pulisco con la manica della felpa il macello che ho fatto.

Alla fermata capisco che l’ultima corsa c’è già stata da un pezzo, ma non me ne preoccupo. Mi siedo sul ciglio della strada. Passa qualche bicicletta cigolante, poi più niente. Ho i capelli arruffati e puzzo d’alcool, non so perché ma questo mi fa sentire al sicuro. Così, mi addormento.

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starò un po’ zitta.

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che non ho mai capito. Tipo se i miei occhi siano grandi oppure piccoli. In foto sembrano sempre minuscoli, invece nello specchio diventano due fanali giganti. Ma anche, non ho mai capito di che colore siano. Grigi? Azzurri? Verdi? Blu? No, blu no di certo, ma insomma. E i miei capelli sono lisci o ricci? Sono grossi, se li asciugo col phon diventano delle specie di setole scalmanate; forse sono solo brutti.

Io non devo andare a vedere film sentimentali al cinema, perché poi mi viene da piangere e mi vergogno. Ieri ho cercato di nascondere la faccia in tutti i modi, di asciugarmi le gote con le maniche del maglione per non destare alcun sospetto, ma uscita dalla sala di proiezione mi hanno chiesto tutti se avessi fumato qualcosa di strano, tanto i miei occhi erano gonfi. E non mi passava. Nella strada di casa ho continuato a piangere come una fontana e mi sentivo triste, giuro, tristissima. Accidenti ai cani, non li ho mai sopportati, però questo sembrava un peluche, era giapponese e mi ha intenerito. Le storie di fedeltà poi mi straziano, davvero.

Altre cose non capisco, tipo perché ho perso il mio Ipod. L’ho raccontato a qualcuno per cercare un po’ di appoggio morale, ma tutti hanno risposto che è solo colpa mia, che sono sbadata ecc. In questo caso posso assicurare che non è vero e che io non c’entro niente. L’Ipod si è volatilizzato nel tragitto che va dal parcheggio a camera mia, senza che io me ne accorgessi. Oppure, come mai s’è sfilato il rullino dalla macchina fotografica dopo che avevo messo tutto il mio impegno e tutta la mia buona volontà per imparare a fare foto con l’analogica, e soprattutto perché l’ho scoperto solo alla fine, con somma frustrazione.
Sono sfigata.

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E’ uno strano allenamento.

Da principio non resistevo. Succedevano alcune cose e cominciavo a impazzire e strepitare. Il sangue mi saliva alla testa con una forza disumana, e col volto paonazzo camminavo da un lato all’altro della stanza, respirando forte. Non trovavo una ragione agli eventi,  cercavo spiegazioni come se dovessi morire da un momento all’altro. Soffocavo, e non c’era modo di uscire da quello stato, se non lasciare che il tempo affievolisse la mia rabbia.

Questa strana scenetta si è ripetuta alcune volte, per ragioni sempre differenti ma comunque legate l’una all’altra dallo stesso filo rosso. E volta dopo volta ho cominciato a cambiare. La rabbia è divenuta meno impetuosa, le reazioni più calibrate. Ci si abitua proprio a tutto, pensavo, a forza di sentire la stessa cosa si finisce per perderne il significato e non percepirla più. Come sottolineare con un evidenziatore tutte le righe di un libro, o ripetere una parola allo sfinimento.

Il fatto è che in realtà non è cambiato proprio niente. Dentro sento la stessa identica rabbia folle. Solo, le pareti sono divenute più solide e riesco meglio a nascondere. Non sono improvvisamente più controllata e ragionevole, affatto. Sento un dolore tremendo di fronte a queste situazioni di cui parlo, sono solo più abile nel ricacciarlo a fondo, come i vestiti dentro un armadio già stracolmo. E pare andar bene così.

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E’ un po’ come aver trovato una piccola famiglia. Il primo giorno abbiamo preso le piante che ricamavano l’ingresso, ed abbiamo cambiato i loro vasi. Le radici erano oramai troppo grandi, e soffrivano a crescere insieme dalla stessa terra. Così le abbiamo divise, una da una parte, una dall’altra. Dopo poco tempo, la più grande è morta. Forse a causa mia, che non so dosare l’acqua. Ma forse anche no.

A. soffre, perché non può avere figli, né mai li avrà. Piange ancora la morte del marito, scomparso prematuramente dieci anni fa, le manca tanto da non riuscire a cambiare niente di questo posto. E’ come muoversi in un mausoleo, tutto è rimasto intatto, nulla si è spostato, neppure gli oggetti in radica sul tavolo di cristallo, che poco si addicono alla stanza di una donna. Lo aveva amato molto, mi racconta, lo ama ancora. Nel bagno piccolo conserva il suo asciugacapelli – detestava avere la chioma in disordine, lui – il suo pettinino, e il suo lucido da scarpe. Un grande uomo, sostiene lei. Uno sciacallo arrivista, dicono gli altri. Io, che non so, non ascolto e mi limito a pensare a come doveva essere il suo odore.

N. è la maggiore. A. l’ha presa sotto la sua ala come una figlia, al mattino la coccola, ne ascolta le storie e le lamentele. Seguono insieme uno di quei noiosissimi corsi di pittura per sole donne. A. ripone in lei fiducia completa. N. non sa amare, ed ogni cosa, per lei, è un compito da svolgere e portare a termine nel migliore dei modi. Punta dritto sui suoi binari, qualcuno, una volta, l’ha paragonata malignamente ad una mucca, ma quello che vedo io è un cavallino, dolce, costretto dal paraocchi a muoversi solo in una direzione. Ha un cuore buono, lei, e la mania di prendere tutto alla lettera, di non cambiare di nulla di ciò che le è stato ordinato. Un orologio perfetto, gelido come un pavimento di marmo. Vorrebbe che fossi sua amica, credo, oramai è un anno che parliamo ma non mi lascio avvicinare.

Io sono S., la piccola. A. deve provare una certa tenerezza nei miei confronti, perché sebbene ne combini di tutti i colori, continua a ben vedermi. Mi ha aiutata quando ne avevo bisogno, mi ha tirata fuori dal fango senza esitare appena. Ma la detesto.  Il suo odore mi dà alla testa, e la voce mi infastidisce. A volte mi fa una gran pena. E’ una completa incompetente, convinta di saper tutto, testarda, irrazionale, impulsiva. Sbaglia di continuo senza rendersene conto; credo di disprezzarla. Ho pensato spesso che mi aiuti, perché sono l’immagine di quello che una volta lei era: una ragazzina sperduta, nelle mani di nessuno, senza un soldo in tasca ma con una gran testa dura. Non le voglio bene, e non mi sento peggiore per questo. Ho una gran varietà di maschere da sfoggiare in sua presenza, una più sorridente e cordiale dell’altra, e a lei questo basta.

Si va e si viene ogni giorno, qui, e niente cambia. Pensano che io voglia rimanere, ma quanto sbagliano.

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Talvolta preferirei non sapere l’inglese per evitare di capire ciò che alcune canzoni dicono.

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Sapete perché odio i cactus? Perché non hanno bisogno di niente. Se ne stanno lì, zitti e immobili, nemmeno l’acqua – da piante, quali sono – sanno chiedere. Che io ci sia o non ci sia non fa differenza, a loro basta quella poca di luce che filtra dall’imposta appena accostata. Non mi disturbano i loro lamenti, eppure mi stanno di fronte; li ho abbandonati per giorni ma non sembrano aver notato la differenza. Mai li ho graditi, e il destino beffardo ha voluto che fosse dato a me il compito di occuparmene. Ho costruito controvoglia il giardinetto che li ospita; magari all’inizio le loro forme mi sono sembrate carine, ma ho sempre provato un qualcosa di indecifrabile nei loro confronti.

La Kentia, lei sì che mi dava soddisfazione. Beveva quando la innaffiavo, si lasciava accarezzare le grandi foglie, si è fatta curare quando delle schifose larve biancastre sono spuntate sul suo terriccio. Per quattro giorni anche lei ho abbandonato, ma richiedeva tante cure dopo la malattia. E così è morta, in silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse. E io mi sento infinitamente triste, e per una pianta non mi era proprio mai capitato.

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