Dalla posizione in cui mi trovo vedo un triangolo di cielo ancora azzurro, disegnato dai rami intrecciati degli alberi che in questo punto del parco vengono lasciati crescere come vogliono, senza costrizioni o potature particolari. Lo fanno per gli uccelli, come recita un cartello all’inizio del sentiero che si inoltra in quest’area. In effetti, una volta mentre correvo ho incontrato un piccolissimo pettirosso che si riposava sotto alcune felci proprio da queste parti.
Lo stivale fangoso di lui è ancora poggiato sul mio orecchio sinistro e mi tiene premuta la testa a terra. Un piccolo torrente di sangue scorre silenzioso verso la mia bocca, rigandomi la guancia. Lecco via a intervalli regolari quello che mi si ferma sulle labbra; chissà perché il sapore ferroso mi fa venire in mente l’estate dai miei, i lamponi che coglievo nell’orto del nonno – non so se sia per via del sangue o dell’odore di bosco che qui è così forte. So di avere un fil di ferro conficcato in una caviglia, ma laggiù ormai si è informicolito tutto e non riesco a muovermi per poter guardare. Spero solo non sia troppo disgustoso. Lui si fruga nelle tasche da un po’ ormai; ad ogni movimento più brusco qualche pezzetto di terra si stacca dalla suola della sua scarpa e si ferma docile sul mio viso. Nella caduta ho perso uno degli auricolari, mentre l’altro suona ancora, appiccicato al fango sotto la mia testa. Mozart, Concerto per pianoforte n. 21 in do maggiore, K467. Il mio compagno non smette mai di dirmi quanto non capisca i miei gusti riguardo la musica da usare durante una corsa; io trovo la musica classica perfetta, adatta ai cambiamenti di respiro e di strada, alla pioggia che cade improvvisa e a sfollare i pensieri che ogni volta mi riempiono la testa. Di solito parto con Mozart o Wagner, per poi chiudere coi notturni di Chopin quando decido di correre molto a lungo. Oggi, non so perché, non ho fatto che ascoltare questo preciso Concerto a rotazione.
Dopo circa dieci minuti di silenzio finalmente si decide a rivolgermi la parola, in modo brusco. Ha estratto dalla tasca un piccolo coltello affilato, l’oggetto che ha cercato con affanno tutto questo tempo. Piegato verso di me mi chiede rabbioso di dargli il portafogli. Rispondo che non ho niente, non ho mai niente con me mentre corro se non le chiavi e il telefono, che se vuole può avere quello, anche se mi dispiacerebbe tornare a casa senza musica alle orecchie. Mi interrompe prima che possa spiegargli tutto e con fare maldestro inizia a toccarmi ovunque. Mi alza la maglia, mi sposta le braccia, respira forte. Scende verso i pantaloni, mi strizza i fianchi e mi tocca le gambe. Mentre procede nel suo perlustramento burrascoso ricomincio a sentire la caviglia – il suo peso su di me deve aver fatto penetrare il fil di ferro in profondità. Il dolore mi fa uscire una lacrima dall’occhio sinistro ma non dico niente. Lui comincia a mugugnare da solo, sempre più arrabbiato di non aver ricavato niente dalla sua imboscata. Si accorge che ho ancora il cellulare in mano e me lo strappa via con forza. Ora la musica non si sente più. Si piega a terra, la faccia a contatto con la mia. Dice che sono fortunata perché non gli viene duro. Il sudore gli cola dai capelli sulla mia fronte. Puzza così tanto che per qualche momento trattengo il respiro. Mentre si ricompone per andare via mi fissa e mi chiede a cosa stia pensando. “Alla colazione”, dico. Sto veramente pensando a una colazione abbondante, di quelle che piacciono a me, con uova strapazzate, salmone e avocado. La mia risposta non deve piacergli perché prima di dileguarsi definitivamente mi dà un calcio in testa, forte. Perdo conoscenza.
Mi sveglio quando il triangolo di cielo è ormai completamente nero. Ogni volta che passa un’auto sulla strada vicino, il boschetto si illumina a giorno. Mi tiro su a fatica. Ho del sangue incrostato su un lato della faccia, e la caviglia viene via con un rumore poco piacevole dal fil di ferro, lasciando intravedere una brutta ferita. Nonostante non mi regga molto bene in piedi, faccio del mio meglio per staccare il fil di ferro teso tra i due alberi, in modo che domani mattina non si faccia del male nessuno. Mi avvio verso l’uscita del parco zoppicante, senza nemmeno trovare la forza per piangere. Non mi sento triste: ho solo disperatamente bisogno di una coperta che mi protegga dal freddo.
Il mio compagno mi accoglie come un cagnolino abbandonato, con gli occhi pieni di preoccupazione. Mi abbraccia forte e quasi in lacrime mi chiede cosa sia successo. Non ho voglia di parlare. Dice che stava per chiamare la polizia. Gli dico che mi hanno rubato il cellulare con tutta la musica dentro. A quel punto inizio a piangere a dirotto. Dice che non importa, me ne prenderà uno nuovo e metterà dentro tutta la musica che voglio, e che non dirà mai più niente sui miei strani gusti in quanto a musica per correre. Mi stringe ancora e insiste per andare in ospedale. Mi sento come una camicia smessa, non ho forza di replicare – accetto tutto quello che mi dice. Nel viaggio in auto che ci separa dall’ospedale più vicino le lacrime mi scendono a fiumi sulle guance. Il dolore alla caviglia, gonfia e pulsante, fa andare i miei pensieri in direzioni strane, quasi incontrollabili. Penso che vorrei essere a casa dei miei, sentire il profumo della primavera in montagna, andare al supermercato del paese, comprare gli ingredienti e fare una bella crostata di frutta. Penso che avrei voluto chiedere almeno il nome al tizio che mi ha aggredito. Penso a come spariscano facilmente le persone dalla mia vita. Non una o due, interi gruppi, intere famiglie di persone che ho creduto essere famiglia anche per me. Il mio compagno ha parcheggiato da non so quanto tempo, è sceso dall’auto, si è accucciato vicino a me e mi accarezza. Dice che adesso dobbiamo andare, che devono sistemarmi la gamba, che devo smettere di piangere – dopotutto manca pochissimo al nostro viaggio a Parigi, e mi porterà a mangiare i dolci più buoni che rammento sempre, tutti quelli che disegno sul blocchetto accanto al telefono mentre passo le ore a parlare con la mia migliore amica. Come sempre quando è molto agitato, parla con un forte accento francese. Mi fa sorridere.
Da dove sono seduta adesso vedo uno spiazzo dove riposa il rottame di una vecchia automobile, spogliato di tutto quello che aveva dentro, senza ruote. Un piccolo gruppo di asfodeli gialli, cresciuti per caso, ne decora i contorni. Il mio compagno mi dà un bacio sulla fronte e mi chiede a cosa stia pensando. “Alla colazione”, dico. “Avrei dovuto immaginarlo”, dice. Sorride e mi aiuta ad alzarmi. Il sentiero che collega il parcheggio all’ospedale è ricoperto di lumache e dobbiamo fare attenzione a non calpestarle. Si vedono arrivare ambulanze di continuo, una dopo l’altra, circondate da tante piccole figure indaffarate, in giacche arancioni e camici bianchi.
Mi chiedo quante persone moriranno, qui, stanotte.
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