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Posts Tagged ‘treno’

La signora al controllo passaporti apre il mio, con sguardo annoiato. L’avevo gia’ notata qualche momento fa dalla fila; mi era sembrata una di quelle persone sempre arrabbiate, con la bocca piegata in giu’. Chissa’ quanta gente vede ogni giorno, ho pensato. Forse anche io avrei l’espressione scocciata, dopo il duemilatredicesimo turista che mi sfila di fronte diretto chissa’ dove – o meglio, diretto ad Amsterdam, Parigi, Lille, Londra o Marsiglia, perche’ da qui sono solo queste le destinazioni. La vedo sorridere, anzi, direi proprio ridacchiare, sotto i baffi. Studia la mia foto nel passaporto, mi lancia uno sguardo divertito, poi si toglie gli occhiali. Io ho gli occhi gonfi di pianto, e il suo sorriso e’ la prima cosa che mi fa sentire bene da almeno due giorni. “Quando hai cambiato colore di capelli?” chiede, in francese. “Due anni fa. Anzi, direi tre”. “Vorresti cambiarlo di nuovo?” “No”, le dico, mentendo, perche’ e’ gia’ da qualche tempo che ho iniziato a pensare a tingermi la testa nero corvino, senza nessun riflesso. Solo nero. La signora continua a guardare la mia foto, gongolandosi sulla sedia girevole. “Stai molto bene con i capelli rossi. Non cambiarli”.

Mi siedo in un angolo della sala d’attesa. Sono arrabbiata e triste, cosi’ tanto da aver dimenticato di prendere la crema spalmabile di speculoos – una delle cose che preferisco al mondo. Come sempre, essere in una stazione mi fa sentire piu’ tranquilla. Nelle stazioni e negli aeroporti non devo essere niente, non devo fare niente se non aspettare il mezzo che mi portera’ via, la vita fuori quasi scompare. Scompaiono i negozi chiusi, le famiglie che tornano a casa dopo la giornata festiva, le nuvole, i panifici e i caffe’. Metto le cuffie alle orecchie e mi faccio piccina piccio’ nel sedile del treno, con la testa poggiata al finestrino.

Una volta tanto, sono felice di tornare a casa.

 

 

 

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Uno.

Alphen an den Rijn, stazione centrale. Leggo un libro poggiata ad uno dei pali scuri della pensilina, quando sento una donna sbraitare istericamente in italiano, con un forte accento milanese.

“Maledizioneee!!!si decidessero a metterle in italiano ste cazzo di macchinette per i biglietti, adesso perdo l’aereo!Porca puttana!”

Istintivamente, alzo gli occhi dalla lettura. E’ una signora bassa, distinta. Firmata da capo a piedi, borsetta alla mano ritraente uno dei più famosi loghi di alta moda. Ha dei grossi occhiali da sole, e una ventiquattrore scura. Grida da sola, cercando di non aprire troppo la bocca per non sciupare il trucco.

Mi avvicino.

“Signora…ha bisogno di una mano per fare il biglietto?”

“OH!!Santo cielo, grazie!Oggi c’è lo sciopero dei Taxi, un casino guarda, in dieci anni che vengo qui non ho mai preso uno di questi maledetti treni…!”

“Andiamo, la la accompagno”.

Corriamo verso la biglietteria, “een kartjie naar Amsterdam Schiephol autjeblieft…seconda classe no…?”

“NO!prima, prima, diglielo svelta, FIRST CLASS!”

“ok, erste klaas, geen korting…fanno 13 euro signora”

La commessa sorride, vedendo la signora in preda al panico e me calmissima. Poi, dopo aver digitato qualcosa sul computer, stampa in fretta il biglietto. Appena pronto, io e la ricca megera corriamo verso il treno in arrivo. Durante il breve tragitto che ci separa dal binario mi rivolge delle domande distratte, credo per ricambiare con un po’ di interesse l’aiuto che le avevo offerto.

“..e…che ci fai tu qui???studi??”

“Si”

“Da quanto sei qua?”

“Più di tre mesi…”

“Oh gesù, io ci vengo una volta al mese e ne ho piene le scatole!comunque in bocca al lupo…cerco la prima classe”

“Arrivederci signora…buon ritorno in Italia”.

Una volta sul treno, la sento litigare al telefono dal mio posto in seconda classe. “…ce la farò a prendere quel cazzo di aereo…questa è la prima e l’ultima volta che vado col treno, vedete di trovami una soluzione migliore al prossimo sciopero dei taxi!”.

Non so perché, mi viene in mente che deve avere un figlio. Maschio, sui 17 anni. Alto come il padre, mi immagino. La testa ornata da voluminosi boccoli biondi.

Lo vedo camminare verso una palla da tennis in un campo arancione. E’ vestito in bianco e azzurro, ha una fascia che gli tiene libero il viso e un polsino di spugna. E’ bello, sereno durante i suoi primi giorni di vacanza da scuola. Intorno, siepi verdissime e un cielo terso. 

Palla alla mano, si prepara al lancio con la sua racchetta.

Devono vivere nei dintorni di Milano, mi dico. Hanno una villetta rosa, non enorme ma carina. Il padre ha una macchina grande e non c’è mai. E’ un uomo alto, biondo. 

Il figlio ne è la copia spudorata.

 

Due.

E’ una delle librerie che amo di più ad Amsterdam. Piccola, due stanzette allacciate da una scala di legno dipinta di nero. Migliaia di volumi addossati l’uno contro l’altro sugli scaffali polverosi.

Fuori, una sfilza di bellissime riviste di design. 

Sento un tonfo provenire dalla stanza superiore.

“Tutto bene lassù?” – mi affaccio. La padrona del negozio, una simpatica signora olandese di mezza età, cerca di rimanere in piedi sotto il peso di decine di libri caduti dal penultimo ripiano.

“eheh…not exactly as you can see” risponde sorridendo, mentre mi accingo a salire le scale per andarla ad aiutare. 

Iniziamo insieme a sistemare i libri. Prima di riporli accuratamente al loro posto li apro e li sfoglio, uno per uno. Mi capita tra le mani una raccolta di ritratti, fotografie scattate in varie parti del mondo.

Rimango incantata dagli occhi di ognuno dei protagonisti, dalla loro tristezza. Finché non trovo questa piccola bambina, vestita in grigio con delle scarpine rosse, una mano a coprire la bocca e gli occhi verso il cielo.

Mi estraneo totalmente dalla situazione, rimango imbambolata.

La proprietaria mi riporta alla realtà.

“E’ anche la mia preferita”, dice. “quante volte mi sono rivista in quella bambina…”.

Già.

Finisco di riordinare, saluto ed esco fuori, mentre la pioggia schiocca sull’asfalto.

 

Tre.

Dovrò aspettare il prossimo treno per 45 minuti, così mi siedo su una panchina inerna intenta a scrivere sul diario. Accanto ho un signore malandato, con un giacchetto rosso fitto di buchi e un cappello bianco con una scritta oramai indecifrabile. Sgranocchia ritmicamente delle noccioline rotonde.

“Posso parlarle, signorina?” mi chiede, in inglese.

“Certo”, rispondo. Chiudo il diario con la penna in mezzo, per non perdere il segno.

“Vede quei bagni laggiù…quelli pubblici. Ecco, io lavoro lì. Mi dirà che come lavoro non è affatto divertente, eppure io ne sono orgoglioso. Prima non avevo niente. Sa, sono venuto ad Amsterdam talmente tanti anni fa che nemmeno riesco a ricordare. Tanta speranza non l’ho mai avuta, a casa mi dicevano sempre che ero un po’ scemo…che non arrivavo alle cose, capisce signorina?”

Annuisco. “Certo”.

“Perciò non ho mai preteso niente. Ero scemo, ne ero convinto perché me lo dicevano, capisce?Ma poi, un bel giorno, mi sono svegliato. E c’è voluto tanto tempo, ma alla fine qualcuno ha accettato di assumermi. E sono bravo. Un gran lavoratore, mi dicono.”

Sorrido. Sorride anche lui, mentre lascia entrare la mano nel sacchetto di noccioline.

“Signorina non deve essere triste. Vedrà che le cose andranno bene, basta che si decida ad aprire gli occhi. Non abbia paura di soddisfare le sue volontà, non si lasci mai nulla indietro. Meglio sbagliare che rimanere nel dubbio”.

Lo guardo, sospiro. Il cuore mi batte forte, ed ho voglia di piangere. E’ bello, ma fa anche tanto male quando qualcuno ti scava così a fondo.

Nel frattempo, i freni del treno in arrivo scricchiolano forte nelle nostre orecchie. Mi alzo, intontita.

“Signore, è arrivato il mio treno. La ringrazio per la chiacchierata.”

“Arrivederci signorina”, saluta con la mano. “E non lasci il suo cuore così chiuso. L’amore non è fatto per essere nascosto”.

 

Nel treno, ho pianto.

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