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Archive for the ‘nuvole’ Category

Mi piacciono i giorni dissociati. Sapere che è il primo giugno, aprire la finestra e vedere il cielo coperto, sentire il vento freddo sul viso. E’ quasi estate ed io vado a ripescare nell’armadio i miei vestiti autunnali: calze maglia nere, vestitino nero semplicissimo, lungo pressappoco fino al ginocchio, maglia nera a collo alto; poi un ombrellino nero, per ripararmi dalla pioggerella debole che riga il mattino.

Ierisera, sul treno, accanto a me sedeva un ragazzo con una grossa stella tatuata sul collo. Circoscritto nella stella, il volto noto e corrucciato di Che Guevara. Il ragazzo ogni tanto mi guardava e sorrideva, quasi imbarazzato, nascondendosi il disegno con la mano, ostentanto una certa disinvoltura che non gli era propria. Dev’essere uno strascico dell’adolescenza, ho pensato. Io di quel periodo mi porto dietro solo l’indirizzo email, del quale mi vergogno e che trovo piuttosto ridicolo, ma immagino che dover convivere per sempre con un tatuaggio fatto a seguito di non si sa bene quale passione infervorata non debba essere proprio semplice. Mi chiedo come ci si possa convincere, a 13, 14, 15 o 16 anni, a stamparsi indelebilmente un’immagine addosso. A me sembrava tutto talmente passeggero, ai tempi, e in evoluzione, che a fare una cosa simile non ci ho nemmeno mai pensato. Neppure adesso lo farei, ma in quegli anni men che mai, senza dubbio.

Sono un puntino nero che cammina nella pioggia. Firenze è grigia e oppressa, l’aria sembra pesare sulla testa. Passo accanto a una vetrina e penso che le mie gambe siano effettivamente buffe, ma che importa. Suona Teardrop nel mio Ipod.

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Fingo di saperlo fare, ma sono sempre stata incapace di fronte alle attese. Ad ogni modo, so che non arriverai. La città mi offre le sue luci dalla piccola finestra della mia stanza, io mi siedo sul cornicione bianco e guardo fuori. Case tutte uguali, tetti con la stessa inclinazione. Più avanti un parco, dove ogni mattina passeggio con Charlotte, la musica alle orecchie.

Ho una camera essenziale, giusto lo spazio per un letto e un armadio. Qualche crudele coincidenza ha voluto che nel muro dritto davanti a me fosse appeso un mappamondo gigante, la prima cosa che vedo quando mi sveglio, e l’ultima immagine prima di addormentarmi. Non posso fare a meno di percorrere la diagonale che ci divide, io al centro, in alto, tu in basso a sinistra. Entrambi con il mare intorno. A tracciarla col dito indice della mano destra, questa distanza, ci vogliono dieci secondi – più o meno. A pensarla con la testa, invece, almeno altre tredici settimane. Mentre io riposo, tu trovi un alloggio di fortuna in un peschereccio abbandonato. Mentre tu boccheggi sotto gli alberi secolari che ti riparano dal sole, io mi stringo le spalle nella copertina rosa. Fuori saranno cinque gradi, il cielo è coperto.
Stanotte nevicherà.

Nel tragitto che mi separa da casa, prima, guardavo scorrere i supermercati chiusi dal piano superiore dell’autobus. Avevo una ragazza bionda, accanto, d’improvviso ho sentito una gran sete. Le ho chiesto di offrirmi un po’ dell’acqua che stava bevendo; lei, dopo avermi guardata per qualche istante con aria sospetta – non è certo cosa comune offrire la propria bottiglia a una sconosciuta in piena notte a Londra – decide che non sono affetta da nessuna malattia contagiosa e mi porge il contenitore di plastica, con l’imboccatura imbrattata di rossetto arancione. Bevo avidamente, succhiando via anche l’aria, la bottiglia scrocchia sotto la mia insistenza. Ho ancora il sapore chimico del suo rossetto, sulle labbra. Mi ricorda mia madre.

Accendo una sigaretta. Hanno un bel dire alcune persone, di non voler essere dipendenti da niente e nessuno. Io riconosco di non esserne capace, e di goderne, anzi. Amo la mia dipendenza da tabacco, perché piacevolmente moderata. Da anni fumo al massimo quattro, cinque sigarette al giorno, e nel tempo in cui ognuna di esse brucia mi sento bene. Non penso a niente, forse per via del sapore schifoso che mi scende in gola, o del caldo sulla lingua. Anche la mia dipendenza da musica, mi piace. E quella da libri. Se non ho sempre con me almeno un libro in borsa, impazzisco. Seppure non ci sia occasione per aprirne le pagine e leggerlo, devo percepirne il peso e la consistenza. E’ così da quando ho sei anni.

Passerà il tempo. Nella strada in cui ci vedremo, dopo così tanto, sarà difficile riconoscere i nostri volti. Già distinguo a malapena i tratti del tuo, questo è il potere della distanza. Non saremo più quelli che si sono salutati, qualche mese fa, con la promessa di rimanere uniti. Cadrà la polvere dagli scaffali addormentati della nostra casa, niente sarà più uguale, ci sentiremo lontani pur essendo insieme, eppure, di aspettarti, ne sarà valsa la pena.

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…io non capisco perché.

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La prima sigaretta del giorno è quella alla quale non so rinunciare. Sebbene ultimamente il mio tabagismo si sia molto limitato, per un qualche motivo che non so spiegare sento il bisogno di aprire le danze, ogni mattina, con una capiente tazza di caffè seguita dal fumo corposo di una Winston blu, che brucia lenta mentre mi avvio verso il lavoro. E le cuffie alle orecchie, che suonano la musica che mi suggerisce il tempo. 

Sarà strano per me scrivere, in questi giorni – forse un po’ forzato. Ma mi sento male a rimanere ferma, guardare lo schermo o un foglio di carta senza stendere una sola riga. Sarò un po’ scoraggiata, o troppo concentrata da qualche altra parte, che siano le parole di una canzone o del libro che sto leggendo. 

N.d.r.: la simpatica Youtube mi vieta di inserire il video che volevo aggiungere. Allora vedetevelo qui.

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Viene, nella notte, a trovarmi un bambino. Porta con sé un grande sacco di velluto grigio – “è da gonfiare” – dice, col sorriso sulle labbra. Ha il profumo del vapore sui capelli, sembra assurdo riconoscerne la voce, come se gli anni non fossero mai trascorsi e niente fosse accaduto. E gonfiamolo allora questo guscio vuoto, ma per quanto possa sforzarmi nel soffiare, niente si smuove, tutto resta fermo.

Scosta un ciuffo dal mio viso, il bambino, mi ricorda che sediamo sul letto di una mamma. Ci sporgiamo verso le scarpe sotto e sembra tutto più grande. Ho paura e non voglio scendere.

Torna il riflesso di un sabato mattina assonnato, e un cappuccino troppo caldo. Due donne, di fronte, mi raccontano di un pianista incapace di donare ad ognuna delle sue dita lo stesso peso. Ne descrivono i suoni goffi – pam pa pam doon – e mi viene da sorridere.

Il silenzio di una camera da letto, dopo che la luce si è spenta, con poca convinzione. Chiudere nel sonno ciò che si ha da dire e pensare, per stavolta mandar giù è la cosa migliore. O almeno, così sembra.

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Ho visto tanto di quel rosso oggi da sentirmene quasi satura – in senso ovviamente positivo. Rosso dei mattoni, delle chiese coi soffitti alti e gelidi, del pavimento sotto i portici. E’ tutto un po’ più piccolo e proporzionato, a Bologna, o perlomeno sembra così, a me che sono abituata a districarmi nel pretenzioso centro di Firenze. 

Ancora. Ogni volta che vedo una torre, una cupola, o qualsiasi cosa che mira verso l’alto, ho questa smania di dover arrivare per forza in cima, salire tutti i gradini per vedere il mondo da su. C’è il silenzio, di sopra, e le persone piccole sulla strada. Viene da chiedersi cosa si possa provare a metà del cammino che dal cielo va alla terra. Mi viene in mente una gran paura, ma non solo. 

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Non riesco più ad ascoltare un disco. Peccato, mi andava. Ma già dalla prima nota del primo brano inizio a sentirmi strana, e allora sono costretta ad evitare. Eh vabbè.
Questo sabato vedrò finalmente il mare, credo, e spero. Vorrei che in cielo ci fossero tante nuvole, e per strada nessuno. Si si.

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Questa scala l’ho guardata tanto a lungo da poterne ricordare ad occhi chiusi i graffi di ruggine.

Appena sveglia, prima di chiudere le tende alla giornata che finisce, durante i pomeriggi noiosi passati a rinchiudermi nel guscio senza che un filo d’aria potesse filtrarne.

Ci sono stampati i miei pensieri su quegli scalini, e nella vernice rossa che cambia tono a seconda del cielo. Il rametto attorcigliato al corrimano, mi sono sempre chiesta come dovesse figurare ricoperto di edera. Forse troppo verde, ma comunque bello.

Oggi c’è anche un gabbiano in equilibrio sul lampione in lontananza; si confonde con il grigio e diventa nuvola, se non fosse per le punte più scure delle ali. 

Ho creato dei mondi scorrendo con lo sguardo questa spirale – tanto è pregna di quello che avevo da immaginare che una volta lontana ne sentirò la mancanza. Sa di noi, di ricordi neppure nati ma già vivi.

 

Strano, no?Giusto quando avevo iniziato ad essere scettica riguardo le simmetrie.

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E’ incredibile quanto possa essere autunno in questi giorni, qui in Olanda.

Oggi una tempesta mi ha travolta giusto giusto mentre ero a metà strada tra casa mia e il centro della città. In una di quelle stradine nascoste, la classica scorciatoia lontana da tetti e possibili ripari di emergenza.

E così, zuppa nel mio cappotino rosso, ho continuato a pedalare ad occhi chiusi controvento, mentre i goccioloni pesanti mi ricoprivano completamente.

Ma l’acqua non mi dà fastidio; e nemmeno le nuvole o il freddo. Solo, credo che sarà ancora più difficile tornare a casa.

Poco fa ho capito perché mia madre amasse tanto sistemarmi i capelli quando ero bambina.

Caithlyn mi ha chiesto di farle le trecce; momento di assoluta serenità in camera sua, con la luce fioca e il vento che fuori imperversava. Lei seduta sul letto, intenta a fingere (perché ancora non ne è capace) di leggere un libro su un papà che non sapeva cucinare le uova; io in piedi, dietro di lei, che le intrecciavo i capelli morbidissimi e lisci all’eccesso, con pazienza e dolcezza, senza pensare a nulla. 

 

Stamattina mi sono svegliata con un acuto senso d’odio nei miei confronti. Sarà perché ho sognato un’altra me stessa, perfetta e priva di tutte le cose che detesto in me. Nel sogno ovviamente c’ero anche io io, che vedevo la Mei perfetta essere accettata da tutti (miei genitori in primis) ed amata, e coccolata. Io Imperfetta seguivo tutto da un angolo buio con un desiderio impellente di correre verso la Mei Perfection e strozzarla con le mie mani. Non è strano che svegliandomi abbia sentito un disgustoso amaro in bocca.

Ancora se penso a quel sogno sento prudere le mani. E’ che effettivamente mi sono sempre sentita divisa a metà, ma in questo periodo più che mai. Sarà che vorrei avvicinarmi qualcuno, ma appena questo qualcuno è effettivamente vicino, io comincio a indietreggiare solo il mio misterioso cervello sa il perché. O che apro dei varchi e lancio dei segnali, ma poi decido che non è il caso, il perché va chiesto sempre al mio caro cervello. Rinnego le cose che voglio di più e tutto ciò è altamente frustrante. Non so che darei per essere Integra; non d’accordo con qualcuno, semplicemente con Me stessa.

Forse verrà tutto quando inizierò ad avere una stabilità nella vita, non lo so. Vorrei solo pensare con una testa, non con due.

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C’è il cielo di fronte, ma le bolle di sapone mi offuscano la vista. 

Lo faccio sempre quando mi sento un pochino triste. Prendo il tubetto colorato che conservo nascosto dietro uno dei miei disegni, vado fuori e soffio nel piccolo cerchio. Ed eccola, la magia. In piccoli specchi sferici e instabili che riflettono il fiume, le foglie – e le nuvole.

 

 

Prima ho respirato un po’ di serenità. Un invito a cena, con la clausola che avrei dovuto cucinare io.

Al supermercato, indecisa sul da farsi, mi perdo in mezzo alla verdura; ne esco con tre peperoni -giallo, rosso, verde- poi prendo del buon formaggio, e il mascarpone per il tiramisù che stavolta sarà quello vero.

Chissà perché ho iniziato ad appassionarmi alla cucina. 

Non ho mai sopportato il fatto di cimentarmi ai fornelli nonostante metà della mia famiglia faccia parte di questo mondo,  eppure adesso è quasi un rito. 

Le mie ricette sono le mie pozioni, e mi applico con passione, seppur raramente.

 

 

Di nuovo in due, con la pancia piena e i piedi al fresco nel fiume grigio. 

E’ triste questo ponte, così alto e ferroso;  triste specialmente con dietro i nembi oscuri, “questo paesaggio mi ricorda Manchester, anche se a Manchester non ci sono mai stata”, dico. 

Mi chiedi se tornerò, a Settembre. “C’è Danielle che ti aspetta no?E poi la scuola, i disegni…”. Ma non posso risponderti, non ancora. Devo prima ritrovare la mia casa, capire quello che cerco. 

Ancora, provi a chiedere. Guardo il mio cappottino rosso, sento freddo. Il vento tira forte e arriccia l’acqua sporca che scorre veloce. “Ma è proprio il 5 Luglio?”

“Si. Non mi hai risposto.”

C’è che vorrei poterla stabilire una strada, ma non ci arrivo. E’ un mio limite, o forse una mia salvezza, dipende dalle giornate. Potrei dirti che sì, sarò di nuovo qui in due mesi, ma mi chiuderei in una gabbia che non voglio pensare.

 

La bottiglietta di acqua e sapone è quasi vuota, e io non sono ancora sollevata. Qualcuno suona una fisarmonica, e le foglie degli alberi danzano a tempo. 

Adoro il suono della fisarmonica nell’aria; mi ricorda un vecchio bar, l’odore del vino e un basco grigio, al tramonto.

Penso a casa, inevitabilmente. Alle cose costruite, seppur nella mia testa.

Non lascerò che mi scivoli tutto dalle mani, non stavolta.

Non cercherò di nascondermi, e non indietreggerò.

Vedremo, vedremo. Intanto, sorrido.

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