Mi piacciono i giorni dissociati. Sapere che è il primo giugno, aprire la finestra e vedere il cielo coperto, sentire il vento freddo sul viso. E’ quasi estate ed io vado a ripescare nell’armadio i miei vestiti autunnali: calze maglia nere, vestitino nero semplicissimo, lungo pressappoco fino al ginocchio, maglia nera a collo alto; poi un ombrellino nero, per ripararmi dalla pioggerella debole che riga il mattino.
Ierisera, sul treno, accanto a me sedeva un ragazzo con una grossa stella tatuata sul collo. Circoscritto nella stella, il volto noto e corrucciato di Che Guevara. Il ragazzo ogni tanto mi guardava e sorrideva, quasi imbarazzato, nascondendosi il disegno con la mano, ostentanto una certa disinvoltura che non gli era propria. Dev’essere uno strascico dell’adolescenza, ho pensato. Io di quel periodo mi porto dietro solo l’indirizzo email, del quale mi vergogno e che trovo piuttosto ridicolo, ma immagino che dover convivere per sempre con un tatuaggio fatto a seguito di non si sa bene quale passione infervorata non debba essere proprio semplice. Mi chiedo come ci si possa convincere, a 13, 14, 15 o 16 anni, a stamparsi indelebilmente un’immagine addosso. A me sembrava tutto talmente passeggero, ai tempi, e in evoluzione, che a fare una cosa simile non ci ho nemmeno mai pensato. Neppure adesso lo farei, ma in quegli anni men che mai, senza dubbio.
Sono un puntino nero che cammina nella pioggia. Firenze è grigia e oppressa, l’aria sembra pesare sulla testa. Passo accanto a una vetrina e penso che le mie gambe siano effettivamente buffe, ma che importa. Suona Teardrop nel mio Ipod.