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Archive for the ‘notte’ Category

Devo ammettere che in effetti il posto in cui vivo è un tantino spettrale. Specialmente a notte fonda, d’inverno.
Forse è per questo motivo che ancora, nonostante sia cresciuta, ho una gran paura a tornare a casa a piedi da sola. Per arrivare, passo in una zona buia e solitaria, tra un inquietante laghetto e una parte di bosco oscuro e minaccioso.
Però ci provo a farmi coraggio. E quasi sempre ci riesco.

Mi accorgo che le cose cominciano ad andare meglio quando, nonostante la mia fama di perdente assoluta, in una sera colleziono due vittore gloriose a tombola. Quando camminando mi rinchiudo tra sciarpa e cappello con la musica alle orecchie e mi sento felice e non penso a niente in particolare, solo al fatto che sono felice, arrivo davanti al portone di casa e la canzone che sto ascoltando finisce nell’istante esatto in cui infilo la chiave nella serratura.

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Stanotte ho sentito quella del piano di sopra che faceva l’amore. Cioè, più che sentire lei ho sentito il suo letto che scricchiolava. Cricri cricri cricri, bodobom bodobom bodobom, prima piano piano poi forte, dieci minuti di fuoco. Ero incantata a fissare il lampadario quando è successo, è stato buffo. Pensavo, io sono qui illuminata solo dal fedele Vate (il mio abat-jour) con un libro semiaperto sul petto, e loro a poca distanza ci danno dentro. Ci separa solo il soffitto – o il pavimento, dal loro punto di vista. Non voleva essere una considerazione perversa, però l’ho fatta, così, tanto per constatare qualcosa.

Poi non riuscivo a dormire. Ero convinta che ci fosse un fantasma a spiarmi, ogni tanto mi succede. Beh a dire il vero mi succede da sempre, da quando ero bambina.
Da piccola i miei avevano una casa con una sola camera da letto perché non avevano esattamente programmato il mio arrivo, così per qualche anno abbiamo dormito tutti e tre insieme. Per carità, una vera goduria per me – quale bambino non sogna di poter passare ogni notte in mezzo a mamma e papà – però sono convinta che questa cosa mi abbia rovinato. Per farla breve, dopo un po’ la mamma rimase di nuovo incinta e così dovemmo cambiare casa. I miei trovarono un grande appartamento, dove sia io che il futuro fratellino avremmo avuto una stanza tutta nostra. Per me fu l’inizio di un incubo continuo. Stare da sola al buio mi terrorizzava, vedevo spuntare mostri da ogni angolo della camera, tant’è che avevo cominciato a riconoscerli e a dar loro dei nomi (non proprio fantasiosi, ma insomma). Ad esempio, dovevo raggomitolarmi quanto più potevo altrimenti i Diavolini (delle piccole creature a forma di diavolo, dotati di corna e tutto) mi avrebbero infilzata coi loro mini-forconi. Oppure dovevo addormentarmi prima delle 10 sennò dalla porta spuntava il faccione di Mostrorosa, una specie di chewing-gum gigante, che mi avrebbe punita leccandomi la faccia con la sua lingua bitorzoluta. Ma questo non era ancora niente. Infatti più crescevo, più queste manie diventavano consistenti. Per un certo periodo dell’adolescenza ho avuto talmente tanta paura – del buio? di non addormentarmi? dei mostri? – insomma, di qualcosa che avesse a che fare con l’accoppiata letto – sonno che non ho dormito per interi mesi. Cioè un po’ dormivo, però magari dalle cinque alle sette del mattino. Poi blabla è passato il tempo e sono guarita ma non è questo il punto.

Quello che volevo dire è che ho ancora paura dei fantasmi, o di qualsiasi cosa si tratti. Stanotte, dicevo, ero convinta che ci fosse uno di quei cosi qui accanto al mio letto. Spegnevo la luce, irrimediabilmente pensavo alla “presenza” e cominciavo a tremare, a sentire il cuore battere all’impazzata, così riaccendevo la luce e via così allo stesso modo fino alle quattro, quando stremata mi sono lasciata andare. E’ stata una notte davvero terribile, se ci ripenso poi mi spavento di nuovo.

L’oroscopo dice che sto avendo un Bel Momento. I Bei Momenti mi stanno sulle balle, perché sono controproducenti. Nei Bei Momenti faccio sempre la cazzona, scrivo stronzate come questa e non sono abbastanza depressa per poter davvero pensare di fare qualcosa di buono. Ah, e dico anche un sacco di parolacce in più, come quei bambini che giocano a insultarsi e si divertono come pazzi (puzzi! fai schifo! te sai di vomito e di cacca! e te sei fatto di stronzolini! te c’hai il pisello!ahahahahah).
Ok, la smetto.

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Uno, due, tre gradini e poi un’altra pensilina. Davanti luci, folle di viaggiatori e vagabondi, cartacce per la strada, rumori; dietro solo le porte di un treno che si chiude, l’autunno, la montagna e i fumi dei falò di foglie. Un libro è finito durante il viaggio, cosa cambia in due ore. Qui, di tempo ne è passato, ma io continuo a piangere, lo faccio continuamente, troppo, e so che è fastidioso, ci tengono a ripetermi di smetterla, che non ho mica cinque anni. E io smetterei se potessi, che suona banale ma non è una giustificazione.

Qualcuno scende dal treno e si guarda intorno. C’è un luogo dove si finisce quando non si sa dove andare, e una strada, in fin dei conti, vale l’altra, ché non importa tanto la meta, quanto il fatto di avere un suolo su cui consumare le scarpe.

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Mi piace conoscere le voci delle persone. Sia di quelle che mi sono vicine che di quelle che non ho mai visto. Per questo motivo, alle volte faccio un gioco. Prendo l’elenco telefonico grande, che sta sotto il telefono nel mobile del corridoio. Decido un luogo a caso, tra quelli elencati, una parte della città o un paese di provincia, preferibilmente piuttosto piccolo. Inizio a sfogliare le pagine fitte di nomi e numeri di telefono e scelgo  qualcuno, perché mi ricorda qualcosa, o semplicemente perché il suono delle sue lettere mi piace. Compongo il numero e aspetto. Capita che non risponda nessuno, ma il più delle volte la cornetta si alza. Dicono “Pronto?”; lo ripetono due, al massimo tre volte, poi si spazientiscono e riagganciano. Se una voce mi piace particolarmente, la richiamo subito, sempre rimanendo muta. Di solito quando la persona che alza il ricevitore sente di nuovo silenzio nella cornetta, aggiunge uno sbuffo ai due-tre “Pronto?”. Se la voce mi piace proprio tanto, continuo a chiamare finché il mio interlocutore non si stufa e stacca il telefono.  Allora segno nome e numero in un taccuino, con una piccola annotazione riguardo sesso della persona, presumibile età, quando richiamare. Di solito mi ripropongo dopo un mese, nello stesso modo, chiamando ma senza dire niente. Non ho mai parlato con nessuno degli interlocutori, perché voglio solamente ascoltare le loro voci. Certo, alcuni di loro vorrei conoscerli, ma la situazione suonerebbe troppo strana e intricata, tanto che nessuno accetterebbe di incontrarmi.

Ho un mio preferito, che è anche quello che odio di più. E’ un signore sulla cinquantina. Decisi di chiamarlo tempo fa, perché il suo era anche il cognome di un amico. Di giorno non risponde mai, di notte sempre. La domenica mattina stacca il telefono, e lo rimette in funzione alle 11:30. Con lui mi sono proposta allo stesso modo degli altri: chiamando e richiamando, solo per ascoltare la sua voce. La notte in cui lo sentii per la prima volta, mi piacque talmente tanto che desiderai chiamarlo all’infinito, solo per ascoltare. Alzava la cornetta sempre dopo due squilli, diceva “Pronto?” due volte, e non riagganciava mai. Non sbuffava nemmeno. Se ne stava dall’altro capo del telefono, silenzioso, come me. Allora ero io a dover interrompere la conversazione. Lasciavo passare qualche minuto e ricomponevo il suo numero; l’ho fatto talmente tante volte che lo conosco a memoria. L’uomo attendeva che dicessi qualcosa, pazientemente, senza stufarsi. Ho continuato questo gioco fino alle sei del mattino, poi sono crollata addormentata, le spalle poggiate al mobile del telefono. Ho aperto gli occhi dopo qualche ora, con addosso una dolorosa benché dolce sensazione di sconfitta.

So come si chiami e dove abiti. Sono passata a volte di fronte a casa sua, per via di alcune vicissitudini ho avuto anche possibilità di entrarci, in due occasioni. Lui non c’era mai. Ho visto il suo aspetto nelle foto, so qualcosa della sua storia perché mi è stata raccontata. Ma non l’ho mai conosciuto. Lo amo per la sua pazienza, e per lo stesso motivo lo detesto. Conduco una vita solitaria e ripetitiva, alcune notti mi sento impazzire, allora faccio il suo numero fino allo sfinimento, e lo ascolto rispondere. Ogni volta cado addormentata, col telefono in mano, sognando la sua voce. Non so cosa pensi, ma credo che le mie chiamate in qualche modo gli siano gradite. Dev’essere stato abbandonato, quell’uomo, come me. Il suo, è l’unico numero che non abbia mai annotato nel taccuino.

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Come svegliarsi all’alba in una casa abbandonata. Gli armadi vuoti, le scatole ammassate agli angoli, la polvere sugli scaffali. Nella notte ho quasi paura a muovermi, non cambio posizione. Mi accompagna un sonno leggero e rimango appesa a quello che succede nella realtà, perfettamente conscia dei miei pensieri. Suona la sveglia e il cuore mi schizza fuori dal petto, il cielo è viola. E’ ora di partire.

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Alla fine di questo libro sono serena. E’ una sera fresca e poco rumorosa, la gatta mi sveglierà presto al mattino, ed ho un gran bisogno di dormire. Arrivederci.

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Qualcuno è sparito anche dalla mia vita, senza dare troppe spiegazioni. Dopo una lunga e tormentata situazione, e un periodo di apparente felicità, un bel giorno ha spento il telefono ed è scomparso. Succedeva tempo fa, ero ancora una ragazzina. Per quattro anni ho atteso il suo ritorno, quasi immobile, o almeno una sorta di giustificazione. Dopo la scuola, immaginavo che mi attendesse di fronte alla porta di casa, pronto a raccontarmi che cosa lo aveva portato a fuggire da me. Lo sognavo. Quando uscivo, aguzzavo la vista in cerca disperata della sua figura. Le poche volte che mi è capitato di avvistarlo, in lontananza, non sono riuscita a fare altro che tremare, e non dire una parola. Durante questa sfiancante attesa, ho trascorso due anni con un altro ragazzo, che non ho amato.

Di questa storia non parlo quasi, e non riesco a scriverne, mi sembra assurdo averla liquidata in queste poche righe. Non ne faccio un vessillo o una giustificazione a quello che sono ora, non ne trascino i segni come cicatrici indissolubili. Ho lasciato che si adagiasse in un angolo della mia città, silenziosamente, che fosse ricoperta dalla polvere, o che marcisse e scomparisse, finalmente. Non è successo. Semplicemente, se ne sta lì e mi guarda, in attesa di qualcosa. Non capisco di che cosa. E’ talmente difficile anche solo pensare a quel periodo che ogni tre parole mi tormento i capelli, o mi mangiucchio le unghie. Di tanti episodi non resta che un vago ricordo, più simile a un sogno che a qualcosa di veramente vissuto. Ho questa specie di capacità, che forse tutti abbiamo, di eliminare dalla memoria ciò che fa male. A cosa mi serva tornare a voltarmi in quella direzione non lo so, eppure c’è qualcosa che chiama. Tutto è partito col sogno di stanotte: ero una bambina in un bosco, dopo aver camminato a lungo giungevo in una sorta di rudere – forse un antico anfiteatro – dove mi attendevano un gatto gigante e quel ragazzo. Nessuno dei due parlava. Io guardavo il gatto, poi il ragazzo, e non facevo niente. Osservavo. Il cielo era scuro e frizzante di stelle, la strada per tornare indietro si celava oramai sotto l’erba alta. Dovevo rimanere.

Sarà che devo ripercorrere certe zone come puntini in una mappa, legarle con un filo rosso e soltanto alla fine guardare il disegno che si è venuto a creare. O più probabilmente, sarà che ho troppa immaginazione. Procedo in avanti, comunque. Qualcosa succederà.

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Quattro rintocchi.
Per scendere in fondo al mio pozzo ho dovuto calarmi sott’acqua. Il bello di un fondale è che non importa quanta confusione c’è in superficie; laggiù il silenzio regna, indisturbato, protetto da una coltre pesante che attutisce e dirada qualsiasi rumore.

Non ho molto da dire; ma in particolar modo, ho ben poco da condividere. Ciò che dentro è annodato sembra, per il momento, voler restare tale, adagiato e silente nel mio corpo come un placido grumo di intestini. Dovrei scendere ancora più a fondo per poter smuovere qualcosa, rimanere lontana per un periodo più lungo di quello che i miei polmoni consumati dal fumo mi hanno permesso di trascorrere sott’acqua. Ci sono fili da tirare, rami da tagliare, stanze da riordinare, erbacce da sistemare. Per questo ci vuole tempo. Prendere in mano una città abbandonata e curarsene, da soli, richiede molta energia.

Il mio corpo fatica addirittura a muoversi. Ad alzarsi, camminare, ma anche solo a girarsi nel sonno. Spesso, al risveglio, mi ritrovo indolenzita e con gli arti formicolanti, come se durante la notte non avessi mai cambiato posizione. Perciò mi dico, non è questo il momento per una ricostruzione; ad oggi aspetto immobile sulla cima di una collina, e guardo e scruto la mia città dall’alto. Ho ancora molti angoli da esplorare, prima di cominciare ad agire.

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Lo guado attenta, mentre sceglie l’album da inserire nel lettore.
“Non mettere musica italiana, non ho intenzione di capire ogni singola parola.”
“Va bene”, risponde, “nessun problema. Metto un misto. Non ho altro.”
“Lo sai che odio i misti. Ma vabbè, metti, metti.”

Siamo stanchi. Durante il tragitto parliamo poco e respiriamo forte. Ci fermiamo per una sigaretta e ricominciamo a viaggiare. Io mi srotolo sul sedile, scomposta, e canticchio. Canticchia anche lui.
“Siamo buffi come coro. Io sembro un gesso su una lavagna ruvida, tu una specie di stilografica su un foglio liscissimo”
“Non credo di capire”, rispondo, incerta.
“Sì, dico. Le nostre voci, dai”.
Annuisco. Si susseguono le curve scure aldilà del finestrino.

“Non ci si capisce niente lì fuori, è tutto buio” dico.
“Già. Potrebbe sembrare un enorme ammasso di blob”
“Ma il blob si muove. E poi qui ogni tanto si vede una luce, no?”
“Già.”
“Una volta, qualche tempo fa, ho fatto l’amore in mezzo a quel buio.”
“Ah sì? E dove?”
“E come faccio ad indicartelo con precisione? E’ tutto uguale. Più o meno da queste parti.”
“Ah”.

Passa il tempo. Nella strada che ci porta verso casa penso che a poterlo, rimarrei per sempre in questa automobile, di notte, mentre l’asfalto docile si lascia calpestare.
“Bisogna avere pazienza, sempre”, dice. Io fingo di essere addormentata e non rispondo.

Bisogna avere pazienza, sì. Già.

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Ma quant’è bello rimanere svegli fino a tarda notte per leggere un libro.
Mi sento un po’ nella fine del mondo, poi: non chiedere mai e ti sarà dato, come fa il protagonista col guardiano.

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